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mercoledì 29 gennaio 2014

BR, CHE FREDDO FA!

I GIORNI DELLA MERLA



Gennaio, con freddo e gelo,
alla bella merla
con piume di perla
faceva oltraggio e dispetto.

Ella, allora, sola col suo piccino,
per tre dì si rifugiò su di un tetto
e per scaldarsi entrò in un camino.

Ne uscì a febbraio,
tutta sporca e nera,
sperando fosse già primavera.

Quando dalla caccia tornò il suo merlotto,
non riconobbe la  sposa di botto,
ma, udito il suo canto, ben presto capì.
Le volò accanto  e  per amore frinì.

Sembrava però un gruppo assai strano,
lui tutto  bianco, l’altra ebano
Allora il merlo si tinse di nero,
in segno eterno di amore sincero





Venafro, 31 gennaio 2011


martedì 28 gennaio 2014

ITALIA: PASTA, PIZZA E NON SOLO

Pasta e pizza ci distinguono nel mondo.
Se si dice Italia, si pensa mare, sole, arte, bellezza, e pasta e pizza, appunto.
Sono cibi semplici e poveri, in origine cibi da strada, alla portata di tutti, oggi forti simboli della nostra identità gastronomica nazionale.
Non si conoscono con precisione le loro origini.
Secondo alcuni l'uso della pasta, meglio, degli spaghetti, venne importato in Italia dalla Cina da Marco Polo, secondo altri risalirebbe addirittura al medioevo.
Viene da lontano infatti l'uso di un impasto di farina con acqua, a volta con l'aggiunta di uova e zucchero. Anticamente si parlava di pasta ogni volta che si voleva indicare un impasto siffatto, dolce o salato che fosse. Era alla base della dieta dei poveri, insieme al cavolo, dieta protrattasi nei secoli.
Nel '700, i ricchi europei in viaggio in Italia (tra questi Goethe) alla scoperta di bellezze naturali ed artistiche annotavano di straccioni, lazzari o lazzaroni, antesignani degni attuali scugnizzi,  che si nutrivano per strada di un piatto di pasta lunga, che mangiavano con le mani.
Inizialmente, la pasta veniva mangiata in bianco, con appena un po' di pepe, di olio o  di formaggio. Il sugo di pomodoro arrivò dopo.


Altro simbolo forte della nostra identità è la pizza, nota per essere stata offerta durante una visita a Napoli, nel 1899, a sua maestà la regina Margherita di Savoia , moglie di Umberto I, da cui prende il nome nella più popolare e gustosa delle sue mille varianti.
Ma la pizza in realtà è ben più antica e deriva il nome dalla greca PITTA o dal turco PIDE, una focaccia in uso in tutto il bacino del Mediterraneo, fatto di farina, acqua e olio o altro grasso.

Queste specialità ci hanno fatto grandi nel mondo, sono semplici, economiche, nutrienti e gustosissime. Fanno parte della nostra storia sociale e della nostra cultura. Vanno conosciute e celebrate e non solo mangiate!!!

venerdì 24 gennaio 2014

POESIE

Solo un sasso nello stagno

è la nostra vita
Lanciato o caduto
per caso
da chissà chi o cosa
Eleva poco rumore
e crea solo
qualche tremulo cerchio
per brevi istanti
nell’acqua che,
voragine imperturbabile,
si ricompone  immobile
permeabile e indifferente
al peso del sasso
liscio e bianco
che, finito sul fondo,
trova il suo letto cimiteriale
profondo.

E con l’andare del tempo
ancor meno sarà il sasso...
Sabbia melma nulla





                                                                                     Venafro, 16.04.1993


dalla I raccolta POESIE LIBROITALIANO EDITORE




GIUDITTA DI CRISTINZI: GIULIO E IO

GIUDITTA DI CRISTINZI: GIULIO E IO: GIULIO ED IO Racconto Giuditta Di Cristinzi Dedicato a tutte le mamme del mondo, ...

GIULIO E IO











GIULIO ED IO

Racconto

Giuditta Di Cristinzi














Dedicato a tutte le mamme del mondo,
 particolarmente alle mamme di figli speciali

















CAPITOLO  I

            Mi svegliai nel cuore della notte. C’era tanto vento. Sibilava forte tra i rami. Mi innervosiva. Mi alzai e scesi giù. Il vento scuoteva tutto, anche i miei pensieri. Tutto il mio essere. Minacciava pioggia. Uscii fuori nel buio e raccolsi i panni stesi ad asciugare dal giorno prima. Andai in bagno. Avevo uno stimolo continuo. Cercai di fare un po’ di training, di respirazione, ma invano. Ero completamente preda dell’ansia. Risalii su, andai di nuovo in bagno. Un dolore dietro l’altro. Svegliai Franco.
            “Sto male, è ora di andare.”
            Ci vestimmo in fretta; Franco prese la valigia, ormai pronta da qualche settimana, e andò a prendere mia madre. Fece in un attimo, mentre io mi torcevo dal dolore, sempre più incalzante, sul divano. L’utero si contraeva. Sentivo che voleva liberarsi in fretta. Era il mio secondo figlio e sapevo che avrei avuto un travaglio meno lungo e doloroso che per Aurora. Franco rientrò in casa con mamma, che lasciammo in casa a vegliare sulla piccola.
            “In bocca al lupo, cara, andrà tutto bene, vedrai. Ormai sei una supermamma.”
            “Crepi, mamma, grazie. Ci vediamo domattina. Appena possibile, in orario di visite, mando Franco a prendere te ed Aurora. Ciao.”            
            Arrivammo in ospedale. Ero pronta. Mi sistemarono velocemente e mi portarono direttamente in sala parto.
            “E uno, e due, e tre, alla prossima!”
            Alla seconda spinta venne alla luce il mio Giulio. Fece appena un piccolo nghè. Era piccolo, nero, bagnato, sporco. Tenero tenero. Ero stanca e felice. Avevo coronato i miei sogni di ragazza. Una bella casetta a due piani con un po' di giardino, un marito tranquillo, due figli, una femminuccia e un maschietto, un lavoro.
Pensieri, ricordi, sensazioni mi attraversavano la mente. Mentre lavavano e preparavano Giulio, il dottore sistemò me con due punti di sutura sull'episiotomia. Mi riportarono in camera. Ero stanca morta e chiesi di poter dormire un poco. Il riposo durò poco e fu solo un leggero dormiveglia. Nella stanza in penombra non ero sola.
Voci, figure, campanelli, sogni, immagini. Alle dodici circa, aprirono le porte del reparto e iniziò la processione delle visite. Mamma con Aurora, Franco con mia suocera, mio fratello, mia sorella, Carla, Anna Rita,... Avevo tanta fame, ma non volevo dar fastidio. Avrei aspettato il rancio dell'ospedale e avrei mangiato quello. Sicuramente, pensavo,  mi toccherà una dispersione di pastina in brodo della più tipica, ospedaliera e scotta, e una fetta di carne arrosto con insalata. Evviva! Un bel caffè, ecco cosa volevo davvero. Un caffè bollente per tirarmi su. L’avrei chiesto a Franco se non fosse scivolato via dalla stanza, alla prima occasione, prima degli altri, col pretesto di riaccompagnare la madre a casa. Ma sì, in fondo sapevo che più che il mio compagno era come un altro figlio, il più grande, il più bisognoso di cure, il più insofferente. Lui, il lavoro, il bar e il calcetto. E, naturalmente, la mamma. Il suo mondo era circoscritto in questi angusti confini. Tutto sommato l'avevo sempre saputo. Come sapevo che c'era di peggio nel panorama maschile, dunque dovevo accontentarmi.
Quando tutti furono andati via, la nurse mi portò Giulio, con la sua bella tutina nuova, avvolto in un soffice telo, le manine scure, raggrinzite, chiuse a pugno. Lo presi in braccio e fu subito amore e lacrime di commozione. Tirai fuori un seno e glielo offrii e lui, piccino piccino, non tardò a capire. L'odore, forse, lo inebriò prima di ogni cosa, occhi socchiusi, boccuccia secca, trovò il capezzolo e si attaccò succhiando d’istinto. I nostri ormoni facevano il loro lavoro. L'ossitocina mi stava facendo sciogliere in un rivolo di latte, di rilassatezza, di amore che, nato in quel momento, sarebbe solo cresciuto e non avrebbe visto mai più fine.

CAPITOLO II


Aurora prendeva Giulio per mano  e tentava di portarlo fuori in giardino. Voleva giocare col suo fratellino, ma lui scappava via; non ne voleva sapere. Lei, sempre ciarliera e allegra, faceva l'ultimo anno di asilo. A settembre anche Giulio avrebbe cominciato con la scuola dell'infanzia. Io mi barcamenavo tra loro due, la casa e il lavoro part-time.


... 

giovedì 23 gennaio 2014

LAVORO - ULTIMI DATI ILO

Lavoro, “oltre 200 milioni di disoccupati nel mondo, in aumento continuo”

L'Organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo) segnala che il tasso di occupazione globale è sceso al 55,7%, quasi un punto percentuale in meno rispetto ai livelli pre-crisi. Il numero delle persone senza impiego è destinato ad aumentare al ritmo di 2,5 milioni unità l'anno, almeno fino al 2018

domenica 19 gennaio 2014

QUANDO MORIRO’



Quando tra cent’anni morirò,
figli miei,
stringetemi la mano finchè calda
e poi lavatemi e asciugatemi,
come io ho fatto con voi
mille e mille volte

Mettetemi l’abito più bello
e donatemi un libro di poesie
per il riposo dell’eternità
e la dissolvenza dell’essere,
ma lasciatemi vivere per sempre
in voi,
finchè vivrete


venerdì 17 gennaio 2014

FRATELLI DIVERSI

FRATELLI DIVERSI

di

GIUDITTA DI CRISTINZI
  
            Ero quasi euforico. Andai in ufficio ben presto e cercai di liberarmi il prima possibile. Passai dal bar a prendere un latte caldo e mi avviai con l’automobile verso Elbasan. Dopo pochi kilometri, cominciò a nevicare. Entrai nella prima aria di servizio che trovai sulla via e feci montare le catene da neve. Avevo avvertito Erika che non sarei tornato per il pranzo. Avevo tanta voglia di rivedere mio fratello. Speravo davvero stesse meglio. Poverino, povero Gazlind. La sua fragilità di sempre, la sua sensibilità erano state minate alle fondamenta da troppi scossoni. La guerra, i disagi, la morte di mamma e di papà. Eravamo rimasti soli, soli nella nostra grande casa. Adulti, sì, ma segnati dai lutti e dalle scene orribili cui avevamo dovuto assistere. Io avevo ancora gli incubi. Spesso Erika mi svegliava nel cuore della notte:
- Adamat, Adamat, svegliati. Va tutto bene, è finita, stai solo sognando.
Mi svegliavo, l'incubo si dissolveva. Bevevo un po' d'acqua, ma i rospi  che l'inconscio aveva riportato alla memoria non andavano giù. Chissà cosa doveva passare Gazlind  se io stesso stavo ancora così male, mi chiedevo, avanzando verso la meta, con prudenza, considerate le condizioni della strada, man mano che salivo in altitudine. Povero Gazlind. Ma forse, finalmente, ne stavamo venendo fuori. Speravo nell'esito della nuova terapia. L'avrei riportato a casa con me, se non oggi stesso, qualche giorno prima del Natale.
Mio fratello non aveva resistito, non aveva retto a tutti gli urti della vita, lui, una persona sopra le righe, sempre con la testa tra le nuvole, tra le sue note, sensibile, delicato. Gazlind aveva studiato al conservatorio di Tirana e si era diplomato col massimo dei voti in Pianoforte e Composizione. Solo, schivo, riservato. Eternamente single. Poi era arrivata la guerra. I serbi avevano distrutto le nostre vite, turbato giorni e notti. Avevamo dovuto arruolarci. Gazlind, per orgoglio, per lealtà verso la patria, la famiglia e l'onorabilità del nostro buon nome, non volle nemmeno tentare di essere riformato, di fare il servizio civile ed era partito per il fronte, una settimana prima di me. Per tutto il tempo aveva scritto alla mamma una lettera alla settimana. In coda ad ogni lettera, le aveva dedicato una canzone, una melodia, una sinfonia, motivando la scelta con poche, dolci, appropriate  parole di figlio tenero e devoto. Ma la guerra lo dilaniava dentro. Ogni granata, ogni sparo, ogni esplosione spappolava un pezzo d'anima di Gazlind. Lui taceva, si isolava sempre più,  incamerava dignitosamente. Ma dentro di lui si era aperta una come voragine, nascosta all'esterno da riserbo e buona educazione. Poi la mamma era stata attinta da una fucilata a tradimento, all'uscita dalla chiesa; papà, l'anno dopo, era stato stroncato da un infarto ed io, fratello più piccolo, avevo cercato di raccogliere i cocci delle nostre vite e di ricominciare tutto da capo con Gazlind.  Iniziai a svolgere la professione di avvocato e a lui procurai  lezioni private. Quando suonava il piano o  insegnava  il solfeggio ai ragazzini, Gazlind si rianimava, riviveva. Lo stimolai a fare il concorso per entrare nell'orchestra del Teatro Nazionale. Aveva difficoltà a studiare, a reggere il ritmo di lezioni, studio ed  esami. Ma riuscì. Gazlind era troppo bravo. Le sue dita volavano sui tasti dando vita ad arie di ogni genere. Al piano il ragazzo magro, sottile, diafano, con i capelli corti e neri e  la pelle chiara e trasparente diveniva tutt’uno con la sua musica, ora forte e fragorosa, ora struggente e leggera, ora potente e penetrante. Acquistava personalità. Intanto, a teatro Gaz aveva conosciuto Mirlinda, un’étoile del corpo di ballo. Si erano innamorati e sposati nel giro di soli sei mesi. Tutto sembrava andare per il meglio, quando Gazlind cominciò ad avere i suoi primi disturbi. A volte si chiudeva in se stesso, a volte aveva crisi quasi convulsive e faceva scenate, oppure accusava malori e restava tutto il giorno a letto. I fantasmi della guerra, che in me  erano quasi dissolti, nella sua testa avevano ripreso corpo, anzi, lo possedevano. Nel giro di due mesi, Gaz perse lavoro e amore. Fu licenziato dal teatro e Mirlinda  lo lasciò, partendo per una tournée. Egli esplose. Io non capivo come gestire la cosa e lo feci ricoverare. Dopo tre settimane di degenza in ospedale a Tirana, il dottor FUSJI, lo psichiatra  che lo aveva in cura, proposte di tentare a sbloccare la situazione e di praticargli  l'elettroshock. Rimasi perplesso, mi documentari, consultai altri professionisti. Era l'ultima chance per cercare di farlo riavere, di  tornare in sé. Così firmai l'autorizzazione.
La mattina fissata per l'intervento ero lì in ospedale per sostenere mio fratello. Fu terribile. Gazlind rimase prostrato e sedato  per tutto il giorno, delirando, nella stanzetta dell'ospedale,  al buio,  con me che gli tenevo la mano, come avrebbero fatto i nostri genitori, se ci fossero stati ancora.
L'indomani ebbi il permesso di portarlo a casa per un periodo di riposo. Dopo qualche settimana di convalescenza, senza grossi risultati, i dottori mi consigliarono di ricoverarlo nell'ospedale psichiatrico di Elbasan per un periodo di riabilitazione.
I pensieri e i ricordi mi avevano fatto compagnia ed intanto ero pressoché arrivato in prossimità dell'ospedale. Avrei prima parlato col dottor Bosi, poi sarei  andato a prendere Gaz per portarlo a fare  un giro nel parco della città e riaccompagnarlo in ospedale,  dopo pranzo, per il pomeriggio.
Quando arriva in ospedale, il dottore era occupato. L'infermiera mi condusse direttamente nella stanza di Gazlind.
Lo salutai e dopo poche battute rimasi sconcertato. Aveva tra le mani un foglio, un'inserzione scritta a mano, che mi consegnò perché la facessi pubblicare nella Gazeta.

Uniformi militari acquistò fino al 1945 in contanti da privati e commercianti berretti elmettii caschi coloniali elmi colbacchi cavalleria fez cinturoni spalline medaglie frecce distintivi  militari d'epoca fotografie e documenti ecc. max serietà riservatezza telefono 3683225507

- Sto preparando la nostra riscossa, Adamat, io stesso guiderò le truppe e tu sarai il mio secondo, mi disse convinto, con gli occhi spiritati.

Fu un colpo allo stomaco. No, Gazlind non  era guarito, come avevo sperato all’inizio del mio viaggio. Presi coscienza della cosa in un attimo e lo condussi fuori di lì. Avrei amato per sempre e comunque il mio fratello diverso.




* * * * * 

ALLE ARMI!!!

ALLE ARMI

di

GIUDITTA DI CRISTINZI

Mi svegliai molto  presto. Aprii la finestra e tra le barre degli infissi vidi il panorama imbiancato. Durante la notte aveva nevicato copiosamente. I rami dei larici e dell'abete vicino all'ingresso erano piegati dal peso soffice bianco della neve. Dunque, avremmo dovuto aspettare ancora  un bel po’, mi dissi. Tutto il tempo del disgelo. La cosa mi faceva rabbia, ma dovevo stare tranquillo e guardare solo l'aspetto positivo. Del resto cosa avrebbe potuto accadere in meno di tre mesi?  Potevano guadagnare altre posizioni, forse. Ma no. In realtà, il freddo, il gelo, avevano lo stesso peso per noi e per loro. Io avrei avuto più tempo per l'addestramento e la preparazione dell'attacco a sorpresa. Il mio battaglione di civili, impreparati e disperati, faticava a metabolizzare l'ordine e la disciplina. Talvolta, vi erano episodi di insubordinazione. Ma nella vecchia casamatta nascosta nel bosco, ero io a comandare, questo era certo.  Avevo ripreso in pieno lo scettro del comando. Al mattino obbligavo il plotone H ad un paio d'ore di ferreo allenamento del parco.
Mentre ero immerso nelle mie riflessioni e mi accingevo a fare un po' di lavoro di strategia a tavolino con le carte, prima del risveglio di tutta la truppa, qualcuno bussò con energia alla porta.
- Chi è?- tuonai infastidito - avanti!
Sentii l’uscio scattare ed entrò il dottor Bosi, facendo capolino tra lo stipite e la porta.
- Buongiorno, colonnello. Come va oggi? Cosa fa? -
- Riposo, comandante, riposo.
- Bene.
- Ha nevicato. L'inverno sferra il suo primo attacco, minaccia di chiuderci in una morsa come e più dei serbi. Ma noi useremo questo tempo per l'addestramento.
- Certo, colonnello. Lei sa cosa fare.
- Può ben dirlo. Da quando il generale si è lasciato, il mese scorso, tutte le responsabilità di dirigere le operazioni grava su di me, che però ho  le spalle larghe. E lei cosa vuole a quest'ora?
- Visitarla e  provvedere alla terapia. Non trascuri se stesso.
- Certo, non lo farò. Non tanto per me, quanto per la mia gente. Dopo la battaglia di Vukovar, la cattura e le botte prese in testa, ho dolori lancinanti. Qui, alle tempie.
- Faccia vedere, si distenda sul letto. Intanto le prendo la pressione.
- Si sbrighi dottore. Dopo la colazione ordinerò e dirigerò io stesso due ore  buone di addestramento sulla neve. Il freddo ci temprerà.
- Sì, ma ci vada piano. Non è alle prese con dei professionisti.
- Lo so bene. A volte il plotone si sfalda. Questi civili non sanno cos'è la disciplina. Li punirei, alcuni dovrebbero andare ferri, ma lei è troppo indulgente.
- Sissignore. Ora ascolti. Devo cambiarle alla terapia. Prenderà solo tre pasticche al giorno. Il Depakon  mattino a sera e l’Eustat  dopopranzo. Chiaro? Vedrà, l'aiuteranno con i dolori alla testa.
- So sopportare, diavolo se so sopportare.
- Non lo fa per sé, signore, ma per il suo popolo, per la patria. Prenda questa, la prenda ora, subito, davanti a me.
Finalmente il comandante medico Bosi mi lasciò solo. Raccolsi le idee e feci una prima bozza dell'itinerario da seguire. Poi mi preparai, misi il cappello e mi avviai verso il refettorio. Avevo l'abitudine di fermarmi sull'uscio ed attendere che,  ad uno ad uno,  i coscritti entrassero e prendessero posto ai tavolacci per fare la colazione. Quando erano entrati tutti, controllavo di persona che ognuno avesse il necessario. Dovevano nutrirsi per bene, per quanto possibile,  tenersi in forze. Appena fatta la colazione, al ritmo della marcia trionfale dell'Aida, li rifacevo allineare e procedere verso l'esterno. Vassilji Dinieski, il mio secondo, si occupava degli uomini più grandi; io, naturalmente, dei più giovani e prestanti.
-         Attenti-a – urlavo  con tono avvertito - Forza rammolliti, dieci giri di corsa attorno la casa. Poi tutti qui. Devo parlarvi.
Sentivo tutta la responsabilità del comando e della missione da compiere. L'istruzione l'addestramento dovevano essere perfetti.

La campana suonò l'adunata. Mi riebbi da un attimo di stordimento. Dal momento della cattura, non vi era stato un solo giorno in cui non avessi ricordato e rivissuto il crollo e la sconfitta. Fui separato dagli altri, catturato, legato stretto, immobilizzato nella stanza delle torture, invitato a parlare poi, terribile, arrivò la prima scossa, la seconda, la terza. Mi accasciai sotto gli impulsi elettrici. Poi il vuoto. Ricordo solo del momento in cui mi ritrovai con mio fratello che era riuscito ad entrare in quella casa di pazzi e a portarmi via. La fuga fu veloce. Mio fratello Adamat mi fece stendere sul sedile posteriore dell'automobile. Come per magia il cancello elettrico lampeggiò e si aprì per permettere il nostro passaggio. Poi si richiuse subito dietro di noi. Chissà quando aveva dovuto pagare! Scappammo via nel buio della notte. Ricordo solo la musica dello stereo a tutto volume che faceva da colonna sonora alla nostra fuga.

Quel momento terribile  oramai era solo ricordo, spiacevole, doloroso, ma solo un ricordo. Grazie a mio fratello, che sospettavo facesse una sorta di doppio gioco tra noi e loro, trovai nelle settimane successive l'attuale ricovero e il nuovo gruppo di combattenti. Gli internati, nascosti lì come me, aumentavano di giorno in giorno. Adamat era amico di Bosi  e faceva la spola tra Barat e Zagari, in base alle sue possibilità. Alla prossima visita gli avrei consegnato l'annuncio da pubblicare sulla Gazeta per il reperimento di tutto l'equipaggiamento a noi necessario. In serata, dopo l'addestramento e il rancio della sera, avrei preparato l'avviso. Avevamo bisogno di cose svariate, non necessariamente del medesimo colore, che potessero mettere il nemico in confusione, riflettevo ascoltando le note della Dieppen Marsch. Ecco, l'annuncio era perfetto così

Uniformi militari acquistò fino al 1945 in contanti da privati e commercianti berretti elmettii caschi coloniali elmi colbacchi cavalleria fez cinturoni spalline medaglie frecce distintivi  militari d'epoca fotografie e documenti ecc. max serietà riservatezza telefono 3683225507

I giorni scivolavano via, l'uno dopo l'altro, tutti uguali, come una bugia raccontata al tempo. Scandivano il ritmo monotono del nostro ritiro i risvegli, i pasti,  gli addestramenti, le mie lezioni, le fastidiose interruzioni di Munash Bosi e della sua Galina, con pasticche e iniezioni. Spesso pensavo alla mia Mirlinda. La mia dolce compagna era sparita in un giorno di marzo, un po' prima della mia cattura. Non avevo saputo difenderla, non avevo  saputo tenerla stretta a me. Cosa era accaduto alle nostre vite? Ricordavo in modo confuso un teatro, una lettera, una discussione con Mirlinda. Poi tutto era andato alla deriva. La vedevo ancora davanti a me, alta e magra, coi lunghi capelli lisci e castani, appena ramati, gli occhi verdi, il viso aperto e pulito, senza trucco, la pelle bianchissima e perfetta di tutto il corpo. Dove sei adesso, tesoro mio, dove sei?

Il dottor Bosi mi aveva avvertito che l’indomani sarebbe venuto a prendermi Adamat. Sarei andato  a casa con lui per il Natale, almeno per quattro giorni. La cosa mi infastidiva. In fondo stavo bene lì. Mi ero abituato, avevo la mia camera, i mei colleghi, gli spazi comuni e gli allenamenti. Ma avremmo tutti sospeso l’addestramento per un paio di settimane, tanto valeva accontentare Adamat.
Il mattino successivo venne a prendermi Galina  che mi condusse nell’ufficio del comandante medico Bosi. Questi come al solito mi visitò con scrupolo e mi fece le solite domande e le note raccomandazioni. Detestavo ricevere ordini, anche sotto forma di consigli medici.
-         Ecco, colonnello, tenga questa e aspetti ancora un po’ qui che venga suo fratello. Non tarderà.
-         Cos’è questa roba?
-         Le sue medicine per i giorni in cui sarà fuori e dei documenti da consegnare ad Adamat.
-         Che documenti? E’ roba riservata?
-         Certo, la dia a lui. Vi servirà.
-         Capisco, è per la mia copertura.
-         Sì, colonello, la copertura – mi fece eco il medico scuotendo il capo. Per un attimo mi sembro avvilito.
Appena uscì dalla stanza, aprì la busta gialla e lessi. E sì che l’avevano pensata bella! Ma come potevano aver fatto!?







OSPEDALE PSICHIATRICO DI  ELBASAN
CARTELLA CLINICA 1997 1 IN

PAZIENTE:             GAZLIND PRELJOCARY  di anni 37
PROFESSIONE:        MUSICISTA, già direttore d’orchestra del Teatro Nazionale di Tirana
REGIME RICOVERO:  residenziale
ONERE DEGENZA:       statale
REPARTO:                      Psichiatria
DIRETTORE: dr. M. BOSI
DIAGNOSI DI INGRESSO:   psicosi maniaco depressiva , disturbo post-traumatico da stress, delirio, allucinazioni, sdoppiamento della personalità
DATA : 30 novembre 1997             ORA  :    08.33

DIARIO: Si accoglie in CRT, in regime di residenzialita', il signor PRELJOCARY, noto presso i servizi territoriali e con in anamnesi precedenti ricoveri presso SPDC di questo ospedale. Inquieto ed a tratti verbalmente aggressivo e clamoroso. 
Non dispercezioni nell'attualita', non disturbi del contenuto del pensiero, fatto salvo un certo grado di persecutorieta' del tutto non strutturata. Eloquio a tratti stereotipato, ripete a volte le parole gergali militari. A tratti fatuo, severo, umore elevato nel senso dell'euforia, emotivita' labile e direttamente agitata.
Attualmente  convinto di essere un ufficiale dell’esercito.
Di recente è rimasto sconvolto dal suo licenziamento dal teatro nazionale e dall’abbandono da parte della moglie, eventi traumatici seguiti ai fatti di guerra e agli esordi della malattia.
L'accoglimento in CRT e' considerato utile al fine di stimolare le capacita' residue favorendo la risocializzazione e l'autocontrollo delle  crisi dissociative.


NOTE: in maggio ha subito terapia elettroconvulsivante presso l’OSPEDALE PUBBLICO di TIRANA, sotto l’assistenza del Prof. Arkan
UTILIZZI:
FARMACI: come in terapia  
PROVENIENZA: TRASF. OSP. PUBBLICO
PSICHIATRA DI RIF: Dr. Oscar FUSJI
ALTRI RECAPITI: il fratello ADAMAT    
TEL.                                                                                INDIRIZZO

Diario Infermiere
    
Data : 12.12.1997 ora: 12 min: 08


Diario:
<--------> Oggi il paziente ha collaborato nell'assunzione dei farmaci ed e' tranquillo


Utilizzi:
1inferm OP



 
SOMMINISTRAZIONE FARMACI






* * * * 

venerdì 10 gennaio 2014

CAPODANNO

CAPODANNO


Capodanno inizia l’anno
Avvolto in un bel panno
Bianco di soffice neve
Notte di fuochi, giorno breve

Bilanci, sogni e progetti
Umani desideri imperfetti
Attesa dell’anno venturo
Cosa ci riserva il futuro?

In casa ancora albero e doni
Vischio, presepe e panettoni
Giochi a carte e tombolate
Risa, auguri e tavolate

Tutti insieme, grandi e piccini,
Genitori, nonni e nipotini
L’anno nuovo porti a chi chiederà
Salute, amore e serenità!












                                                                                     27 gennaio 2006





LA BEFANA

LA BEFANA



La Befana vien di notte
Con le scarpe tutte rotte

Porta i doni ai bimbi buoni
Giochi, calze e torroni
 
Ai grandi porta altre cose
Dolci strenne spiritose

Questa è l’Epifania
Da passare in compagnia

Tutti a casa, grandi e piccini
Tacchino, brodo e tortellini

Se le feste porti via,
Lascia pace e amore a casa mia!























27 gennaio 2006


Weekend con i miei figli

 Ho appena trascorso un bellissimo weekend con i ragazzi, due su tre per la verità. Giovedì dopo l'udienza sono andata in stazione a Cas...