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giovedì 5 aprile 2018

IL VERLASCE per L'ANTOLOGIA PERRONE L'ERUDITA IL MOLISE CHE ESISTE

IL VERLASCE
di
Giuditta Di Cristinzi

Risultati immagini per FOTO VERLASCE VENAFROLa mia cartolina viene da Venafro, città in cui sono nata e vivo, nobile e storica, aperta e vicina al Lazio e alla Campania, nodo stradale, trafficata, amena, baciata dal buon clima.
L’immagine, un po’ sbiadita,  è quella del Verlasce, antico anfiteatro romano posto al centro del quartiere in cui sono cresciuta. Dopo un passato glorioso che fa risalire la sua origine al primo secolo dopo Cristo e ce lo fa immaginare teatro di crude lotte tra gladiatori e fiere, incitati da migliaia di spettatori, negli anni “70, età in cui l’ho vissuto, era ridotto a un insieme, un’ellisse per la precisione, di stalle di proprietà di privati, contadini e allevatori del posto, in cui erano tenuti attrezzi e mezzi agricoli, polli, galline, tacchini, conigli, pecore, agnelli, asini e cavalli, mucche e maiali. Diciamo pure che l’odore che vi si aspirava non era dei più gradevoli, eppure quell’afrore mi è caro alla memoria.
Era diventato ormai il teatro dei giochi dei bambini del vicinato, svaghi semplici, fatti di niente ovvero di tanta fantasia: nascondino, gallo zoppo, giochi con le pietre e con le mani, scorribande e gare in bicicletta dopo le quali si finiva spesso in lacrime e con le ginocchia sbucciate.
I contadini che l’abitavano negli immediati dintorni erano persone per bene, grandi lavoratori, braccianti agricoli, gente all’antica che si alzava all’alba, al canto del gallo, che andava alla stalla a mungere le vacche e a raccogliere le uova fresche e che subito dopo si recava in campagna sulle trainelle, le antiche carrette di legno tirate da un cavallo o più spesso da un mulo recalcitrante.
Cresciuta e studentessa, dal mio cantuccio, dietro il vetro del balcone dove mi rannicchiavo a leggere e scrivere  li vedevo passare e li sentivo incitare o frenare gli animali con uno scudiscio e a versi: hiiii, haaaa.
Pelle abbronzata in tutte le stagioni dell’anno, mani grosse, rovinate di fatica, lavoro quotidiano mai interrotto da ferie, vacanze, ponti, festività o  malattie.
Nel Verlasce  si svolgevano straordinari e corali i riti della vendemmia a ottobre, dell’ammazzata del maiale a gennaio, della preparazione della conserva di pomodori ad agosto, della raccolta e della pulitura delle olive a novembre, della preparazione del mais messo ad asciugare sotto il sole, davanti le case,  mosso di tanto in tanto con un’apposita pala lunga e piatta.
Molti coltivavano il tabacco e lo rivendevano al monopolio di stato. Una volta raccolto, in lunghe foglie verdi, veniva messo ad essiccare. Mi piaceva partecipare a questa consuetudine estiva a casa o meglio nel fondaco dei genitori di un’amica. Si metteva una lunga pertica di legno tra una sedia e l’altra, si legava un spago da una parte e con un grosso e lungo ago, simile a quello che si usava per cucire i materassi, si infilavano le foglie di tabacco e le si lasciava cadere una a destra, un’altra a sinistra, fino ad arrivare all’altra estremità della pertica. In seguito queste corolle di fumo futuro venivano messe su in alto, in un deposito arieggiato ad essiccare.
Ormai tutto questo Verlasce non c’è più e anch’io sono andata via. I moderni e potenti trattori hanno preso il posto delle trainelle, gli animali sono scomparsi, allevati lontano dall’abitato, i polli che finiscono sulle nostre tavole non sono più quelli ruspanti ma quelli di batteria, le stalle travolte dal terremoto dell’ “84 sono ancora diroccate e solo alcune costruzioni sono state oggetto di restauro, tutti gli accessi sono chiusi alle macchine, nessun vecchio gioca più a morra sotto il pioppo secolare, nessun bambino corre in bici, la fontanella non manda più acqua per abbeverare i cavalli.
Quando torno al Verlasce a trovare mia madre rivedo la cartolina sbiadita negli anni, penso a chi non c’è più e vengo presa dalla malinconia. Chiudo gli occhi per un attimo, assaporo il gusto dolce amaro dei ricordi di giovane e bambina e vado avanti per il mio cammino.





I V’rlasc
r
Giuditta Di Cristinzi


I song r Sant R’nat e ri V’rlasc, quand i Verlasc eva V’lasc addaver, prima ri tarramot.
Nell’antichità eva n’anfiteatr romano, begl ruoss, c z traseva ra tre part, i  ra via Quinto Vibio.
I eva criatura, c pazziavam a nascondino, a vrecc, a uall zuopp, iavam incoppa all b’c’clette, pigliavam la rincorsa ra na sagliuta v’cin a n puagliar. N puagliar, e mica eva un sul! Tutt i Verlasc eva pagliar e stall. N’addor!!!
Caglin, uall, pecura, vacch, vicc, cunigl, puorc.
Ai mes r gennaj f’braij ogn tant z senteva alluccà, n’acut, stev’n a accir a n puorc, tutt’ insiem, un aiutava a nat e nat aiutava a un. Raccugliev’n l sang p fa i sang’nat e po’ magnav’n tutt nsiem.
Z P’ppin e z Catarina jev’n in campagna tutt le matin priest ncoppa a na trainella, semp a faticà, gent r na vota. ‘Ndrea e Assuntina, Maria e Cosm, tal e quale, brava gent, faticatur.
Nova p’gliavam l latt frisch ra lloro e l faciavam volle ncoppa ai gas, altro che pastorizzato! Prima ra Lsandr e Rosina e po’ appriess, rent alla stradina, in ordine, a man a man ca z l’vavn l vacch.
I V’rlasc eva pur na scorciatoia p nn passà pi sctop,  addò c sctevn semp tanta macc’n.
Gl’uom’n sott a n chiupp, v’cin alla funtanella,   jucav’n a morra o c l bocc o z tratt’nev’n rent a na cantina.
Z m’tteva man a turn p smaltì n poc r vin. E m’ttavam man pur nova, bastava na fraschtella for ai cuarag e z spargeva la voce. Mamma t’neva i quartin, i miez litr, i litr. Gl’uom’n jucava’n a cart, b’vevn, z magnavan che cosa r cuc’nat rall m’glier.
Mo i Verlasc n c scta cchiù. Ra quant è fatt i tarramot ri 1984, l stall so chius, gl’an’mal z gl’hann l’vat, scta tutt mman alle Belle Arti e chisa quand z fa journ!




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