Lo chiamavano il fuoriclasse e non era perché sapeva tirare bene in porta per fare gol, no. Piuttosto lui amava i motori e avrebbe voluto fare il pilota o almeno il meccanico.
Forse neanche la mamma gli voleva bene, non era mai riuscita a volergliene davvero. Lei era troppo giovane e occupata a correre dietro al marito birichino per pensare ai figli, tanto meno al fuoriclasse, un pestifero che nessuno sopportava, un guaio in più in una vita che non le aveva risparmiato nulla, dalla morte del padre in poi. Dunque meno lo vedeva meglio stava. Lo considerava una sorta di punizione divina per chissà quale peccato commesso.
Mi fai tirare la faccia, gli gridava contro quando tornava da scuola, dai colloqui con i professori o quando qualcuno bussava alla porta in cerca di scuse e riparazione per qualche sua malefatta presto smascherata.
Fu così che, dopo le scuole medie, anzi dopo quelle più semplici dell'avviamento al lavoro, la madre Amalia pensò di richiuderlo per cinque anni nel seminario. Lì sarebbe stato con Nicola Bianchi, Aldo Furlano e Gennarino Russo. Loro volevano studiare, le madri gli avevano inculcato ambizione e desiderio di miglioramento; speravano di prendere la maturità classica e continuare l'università a Napoli, ognuno per la sua strada. Chi si vedeva già avvocato, chi medico, chi ingegnere.
E allora Amalia aveva pensato, forse con questi e con i preti si raddrizza. Ma la messa in latino e le litanie non facevano per suo figlio, tantomeno le grammatiche di greco e la tavola degli elementi che non erano proprio il forte di Peppino come non lo era tutto il resto, in un liceo ancora di un certo rigore.
Gli insegnanti, pur di non averlo tra i piedi e di non far subire continue distrazioni ai compagni, avevano cominciato a cacciarlo fuori dalla classe il più possibile, nemmeno come punizione ma come tacita tregua, come liberazione da un elemento di disturbo. Del resto anche per i compagni non era più solo motivo di gradito divertimento, ma a volte di eccessivo fastidio.
In effetti Peppino non era cattivo né stupido, ma proprio non ce la faceva a stare fermo e attento. Dopo un po' di tempo nel banco, cominciava ad agitarsi, a scuotere i piedi e le gambe, a stracciare fogli di carta dal povero quaderno con la copertina nera e i bordi rossi, a fare pallini e a lanciarli appena il professore si voltava verso la lavagna, a fare piccoli aeroplani che faceva volare sulla testa del compagno più concentrato e studioso o verso la finestra aperta a primavera, a chiedere di andare in bagno. Dopo le tante ore a scuola e la messa e il catechismo con don Albino, i liceali seminaristi tornavano a casa, purtroppo per Amalia, la gran parte per fare ancora compiti, versioni ed equazioni, Peppino per bighellonare nel rione, smontare e rimontare ogni meccanismo in cui si poteva imbattere.
Il padre era via tutto il giorno, dietro gonne altrui e alla ricerca di un modo per sbarcare il lunario, la vecchia nonna cafona andava in giro a distribuire il latte per il paese con una grande latta di alluminio e un bicchierone per i travasi tra le mani grosse e tagliuzzate di lato, secche e stanche per le quali nessuna fatica era mai troppo. La sorella più grande, Magda, sedeva alla finestra, Berta filava, la sfotteva Peppino, cuciva e ricamava, aspettava e sperava in un corteggiatore prima che tutte le membra cominciassero a volgere in giù ma la dote non c'era e il corteggiatore non arrivava...
Peppino si allontanava un po', anche per non sentire i richiami stizziti della mamma, Peppì vuoi studiare un poco? Ma che ci vai a fare al seminario, mo ti mando a lezione a don Antonio. Ma i soldi non c'erano per le lezioni private e lui da don Antonio non ci andava. Il tempo passava e giugno si avvicinava, l'anno stava finendo e Peppino di latinorum aveva imparato poco o nulla. Capra.
Quando uscirono gli scrutini, un giorno prima di San Nicandro, la festa del santo patrono, Amalia non ci volle credere al miracolo, alla santa manna e alle sue stesse preghiere. Così disse al marito Mario, tu fai quello che vuoi tutti i giorni, dalla mattina alla sera, stai sempre fuori, ma oggi a sct uaglion pensac t. Vai al seminario e vai a vedere i quadri, vedi Peppino che ha fatto quest'anno che io non ce la faccio. N teng curagg.
Mario non rispose, non contestò, annuì, prese il caffè, andò in bagno, si rasò bene il viso malandrino, mise un po' di brillantina nei capelli, indossò il pantalone buono, liso ma ben stirato da Amalia, la camicia bianca, la cintura di cuoio, le scarpe estive bucherellate sulla tomaia, si accese una sigaretta e scese le scale. Passò davanti al Caffè di Cardone, salutò diversi paesani e poi prese la salita verso il seminario, incrociò altri padri che sicuramente erano andati a svolgere la stessa funzione, andare a vedere i quadri. Le mamme erano a casa a cucinare per la festa. Salutò ancora qualcuno, colse sguardi evasivi, arrivò in cima alla salita di Corso Garibaldi ed entrò nel seminario passando davanti a Dino, il bidello, che forse già sapeva.
Si diresse verso il cortile porticato e trovò sulla destra affissi i grandi fogli di carta con i responsi di un anno scolastico che al figlio Peppino doveva essere sembrato una ingiusta e inspiegabile punizione, come e più di quelli precedenti. Cercò la classe, scorse i nomi, quello suo, il suo cognome, preceduto dal nome di Giuseppe e colse subito la scritta in rosso, forte, netta, inequivocabile: RESPINTO.
Maledizione, si sentì mortificato davanti a tutti gli altri genitori che discutevano o si congratulavano. Maledizione alla quella cazzo della moglie Amalia, un'ambiziosa che chissà che voleva, che riscatto cercava, da quando il padre era morto di spagnola ed era caduta con tutta la famiglia in bassa fortuna. Peppino non era fatto per la scuola ma era n brav uaglion. L'avrebbe preso a lavorare con sé, basta scuola, lo avrebbe portato sul suo furgoncino, ai mercati, nei paesi attorno, si sarebbero pure divertiti, gli avrebbe insegnato tante cose e tutto sarebbe andato meglio. Bisognava solo farlo capire alla moglie. La vera testa di zucca era lei, che voleva il figlio professionista. Teneva la povera Magduccia sua sacrificata sul balcone a infilare gli aghi e Peppino chiuso nei banchi, un mondo al contrario. Certo la colpa era pure sua, troppe assenze, altri pensieri, buoni e cattivi, ma la famiglia ormai non funzionava più così. Doveva occuparsene anche lui. Sarebbe tornato a casa e avrebbe parlato a tutti, a tavola, a ora di pranzo. Avrebbero fatto così, Peppino a lavorare e Magda a scuola, e basta. Amalia avrebbe borbottato per un po' e poi avrebbe accettato. Doveva stare zitta.
Mentre ragionava su queste cose, stringendo un'altra sigaretta tra le labbra segnate da una piccola cicatrice, arrivò di nuovo davanti al caffè di Cardone. C'era animazione, tante persone che parlavano ad alta voce e andavano avanti e dietro. Arrivò lì davanti, si avvicino a Carminuccio Iannarelli e chiese che è successo? Zitto, che è sparita la macchina del sindaco, la macchina nuova, una 1100 bianca fiammante. Stamattina è passato, l'ha sfoggiata davanti a tutti, ha suonato il clacson, ha caricato tre, quattro persone ed è andato a fare un giro verso Ceppagna. Poi è tornato, l'ha parcheggiata davanti alla funtana ed è venuto qui per offrire il caffè a tutti. Poi è andata a riprenderla per tornare a pranzo a casa e la macchina non c'era più.
Mentre Carmine spiegava, qualcuno notò che si alzava un polverone dalle parti della falca. Pochi attimi dopo si materializzò una macchina bianca da quella parte. Si fermò all'incrociò e si parcheggiò esattamente dove qualche minuto il sindaco aveva parcheggiato la sua 1100 bianca nuova fiammante, ora tutta impolverata. Tutti guardavano, il sindaco e gli amici più stretti andarono in quella direzione e anche Mario, che aveva già capito, si aggregò alla piccola processione. Mentre camminavano, lo sportello di sinistra si aprì e Peppino il fuoriclasse scese dalla vettura soddisfatto. Guardò verso il paese e vide gli uomini che andavano verso di lui. scorse il padre e scappò via.
