Guazzabuglio di gente e di pensieri
Curiosa
del mondo e dell’uomo che lo abita, affacciata alla finestra del mondo di tutti
i giorni (peraltro, anche per l’incombente necessità del suo lavoro), non perde
tuttavia il contatto con la vita privata: Giuditta Di Cristinzi sa bene come
esporsi, come mostrarsi, come manifestarsi, conservando comunque la
consapevolezza della sua natura – la propria femminilità vissuta senza
conflitti, anzi nel pieno rispetto delle esigenze che la vita reclama (anima e
corpo, e – si licet – ethos ed eros).
Così scrive per affermare e confermare – ce ne fosse ancora bisogno,
considerando la miopia di certa umanità con la quale si convive e con la quale
ci si confronta e bisogna fare i conti – che, malgrado donna, o per fortuna, ha
voglia di vivere in una sua dimensione, e difenderla, e parteciparla.
La
famiglia ha un posto predominante, nella sua produzione poetica, ma è vissuta
non senza fastidio per i momenti (vivi nella memoria e nel presente) che minano
quella che si vorrebbe una pace protettiva, trasformando invece il familiare cantuccio pascoliano in un “nido dorato di
spine” (o un “carcere dorato”, addirittura). Giuditta non ha paura di
confessare le sue debolezze, ma nemmeno teme (quando lo sente necessario, per
amore di onestà intellettuale) dire le cose come stanno se non stanno bene –
almeno come lei vorrebbe che andassero per andare bene. È capace, se occorre,
“di inventare bugie colorate di fiaba”, come fa con i suoi bambini (quando
hanno paura), ma sente pure la forza di “stracciare le convenzioni”, se la
opprimono troppo (e le fanno paura). Perché ha la forza di una personalità
formata con l’impegno della conquista, ed ora non vuole perdere il suo posto
nel mondo: poeta e donna, professionista rispettata e mamma adorata, ma
comunque se stessa, sempre.
Non
capisce la logica del compromesso, non sa che farsene di vuote formule
d’occasione, tanto meno quando scrive poesie. “Quanto di tempo ho perso / e di
me, per assecondare gli altri?” – non è una domanda retorica e non lo ritiene
giusto, nemmeno con i familiari, con le persone che ama, poiché da tutti si
aspetta la stessa disponibilità che lei stessa offre agli altri. Anche in
poesia, perciò, può affermare di essere libera, di porsi al di là delle mode e
delle convenzioni – “nel cielo eterno” della poesia sente di dover “spiccare il
volo” e proiettarsi oltre il confine dei giorni comuni.
Sa
purtroppo di essere “solo una donna” (ma “sono solo una donna che scrive
poesie” – può sembrare un alibi: è una bandiera), sa di essere – e spesso di
essere ingiustamente considerata – debole, addirittura inaffidabile, ma
reagisce con fermezza e convinzione. Di fronte, a volte, avverte “un muro di
gomma”, anche dove non lo si crederebbe, anche in presenza di chi si conosce e
si fa sfuggente per un malinteso. Allora bisogna recuperare, ricostruire con
pazienza i fili di un rapporto. Mai cedere, mai cadere. Se pure minaccia di
ritirarsi “in un guscio / e abitare i miei pensieri”, sa che non lo farà,
pronta ancora a sopportare e respingere altri attacchi, a sfidare la vita
proprio quando non le dà quel che si aspetta. D’altronde, gli anni passano
“volando, come un battito di ciglia”, e perdere tempo (a chi più sa, più
spiace) è da sciocchi. Ogni ora va vissuta, e meritata.
Perciò
non si butta niente, anche se la vita è una successione di “parentesi” più o
meno assaporate, qualche volta di fretta, qualche volta sciupate… ma si va
“avanti / seguendo il solco del mio solito cammino” (riconoscendo le proprie
orme, ripercorrendo i propri passi, riacquistando sicurezza dagli errori). La
vita è quella che si vive, infatti, non quella che ci sarebbe piaciuto e non
abbiamo saputo o potuto o voluto… La vita è quello che facciamo. È quello che
siamo (“guazzabuglio di gente e di pensieri”, scrive Giuditta). La poesia di
Giuditta Di Cristinzi è “un parto” lacerante, “ma si impone” – le si presenta
cioè inalienabile, e chiede, impone, di uscire, di essere affidata, parola che
urge, alle onde magnetiche sulle quali scorre il pensiero quando si fa
messaggio, comunicazione, comunione.
Il
poeta sa che non può esimersi dal trasmettere continuamente i segni del codice,
fidando nella sua leggibilità – nelle capacità di decodifica che hanno i suoi
destinatari –, anche a scapito della chiarezza profonda, perché non sempre
colui che si connette ha la chiave per aprire davvero, e si limita a cogliere
appena la superficie delle parole che riceve. Peccato: se la poesia è tale,
parla di uno e parla a tutti; racconta una vita sola che può valere per altre
vite; dice quel che non tutti sanno come dire. Giuditta chiude il suo libro con
una serie di “Epigrammi e motti”, e quasi in chiusura mette un “Aforisma” di
icastica densità espressiva, una dichiarazione di guerra a chi non sa (o non
ricorda più) di essere uomo: “Chi non è sereno, sparge veleno”. Lei,
ovviamente, ben conscia della sua natura umana, con i pregi e i difetti che la
contraddistinguono, e tuttavia disposta (passio et ratio) a misurarsi
a misura d’uomo (col manzoniano juicio!),
custodisce il suo equilibrio, sparge miele d’amore sulle ferite del mondo, e
dona – nel darsi con parole di poesia – tutta se stessa, a chi sappia
accoglierla con fiducia.
Giuseppe Napolitano