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venerdì 6 aprile 2018

BEI FILM

Ieri sera, facendo zapping, mi sono soffermata sul canale IRIS che non vedo mai perché in genere rifuggo da tutto quel che è Mediaset e che mi ricorda Berlusconi.
Per la seria Ritratto di donna, in onda ogni giovedì, trasmettevano il film Malena, che avevo già visto a cinema anni fa, al momento di uscita nelle sale, non apprezzando abbastanza.
Sono stata rapita subito dalla sconvolgente e totalizzante bellezza della Bellucci, dalla poesia in cui fluttuava l'intera storia, dal tema musicale di Ennio Moricone, dallo sguardo trasognato del giovane Giuseppe Sulfaro nei panni di Renato Amoroso, amoroso davvero.
Alcune scene sono state girate con lo sfondo del  barocco siciliano, alcune alla Scala dei Turchi, in una sapiente mescolanza di bellezze naturali e architettoniche accostate a scene di violenza, abbandono, guerra e distruzione.
Ma quello che su tutto la fa da padrone è il senso dell'incanto del ragazzo verso la sua musa, ispiratrice di vita, di crescita, di amore, di trasporto e buoni sentimenti contro tutto e tutti.
La storia è la sua iniziazione alla vita. I pettegolezzi delle comari del paesino siciliano, le invidie, la prepotenza predatoria dei maschi, la fame e la solitudine della protagonista, tutto fa da sfondo all'innamoramento viscerale, totalizzante, sognante, ossessivo del ragazzo, rapito completamente dalla realtà.
Incuriosita vado a cercare su internet e vedo che la pellicola non è piaciuta solo a me (!).
Giustamente ha fatto incetta di  meritati premi, alla fotografia, alla colonna sonora, quale miglior film straniero, ai costumi, al registra, all'attore esordiente, al montaggio, alla scenografia.
Insomma, ho pensato tra me, de gustibus... fino ad un certo punto. Quando una cosa è bella, è bella e basta e alle cose italiane capita spesso.


WEEK END DI PASQUA

Con un nutrito gruppo di vecchi amici e con tutta la mia numerosa famiglia, accomodati in due capienti van, venerdì scorso siamo partiti finalmente alla volta del sud ad esplorare bellezze mai viste prima.
CASTEL DEL MONTE
Prima tappa Castel del Monte, miracolo di simmetria e simbolismi, ottagonale castello svevo voluto da Federico II, stupor mundi.










TRANI: CATTEDRALE 
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Seconda tappa, il mare e Trani, gioiello pugliese di pietra chiara. La cattedrale, il castello, il palazzo di giustizia, le piazze, i palazzi gentilizi, tutto lastricato con la stessa materia,  ricchezza e simbolo del luogo.
TRANI: processione
Lì abbiamo mangiato pesce cotto e crudo e abbiamo assistito alla processione del venerdì santo: niente da invidiare alla famosa processione dei pasos di Siviglia.


MATERA
Terza tappa Matera.
Da anni desideravo visitare questo gioiello a lungo misconosciuto, osannato da Carlo Levi, scelto da Pasolini per giravi il "Vangelo secondo Matteo" e in seguito ancora set cinematografico di altre fortunate pellicole.
Matera, capitale della cultura 2019, è una città situata su un affioramento roccioso, per lo più un insieme di case scavate nella roccia calcarea con il sistema del "vuoto nel pieno", nel  Sasso Caveoso e nel Sasso Barisano, separati dal burrone Gravina, scavato dall'omonimo fiume.
La città vecchia è punteggiata di case, grotte e chiese rupestri ricche di affreschi. Appare come un presepe, affascinante di giorno, suggestivo al tramonto, magico la sera con le luci rosa e arancio che lo colorano di bagliori poetici.
Matera è stata dichiarata Patrimonio Mondiale dell'Umanità tutelato dall'UNESCO.
Lì abbiamo visitato anche il Museo Nazionale di Palazzo Lanfranchi e quello di Palazzo Midolo (la prima domenica di ogni mese l'entrata ai musei è gratuita), la Cattedrale, San Pietro e San Francesco. Animato di turisti il corso, affollati i ristoranti, noi abbiamo scelto le prelibatezze locali proposte da  Le Baccanti, un locale molto caratteristico dove ci hanno servito tra l'altro crema di fave e cicoria, piatto tipico del posto,  in uno spazio ricavato nella roccia viva.
Tavolata a Le Baccanti 

CASA NELLA ROCCIA SASSO CAVEOSO: ricostruzione 


Con gli amici 

giovedì 5 aprile 2018

L'ITALIA E GLI STRANIERI

(UN MIO SCRITTO PER LA PIATTAFORMA ARTE E CULTURA.COM)
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L’ITALIA VISTA DAGLI STRANIERI?
di
GIUDITTA DI CRISTINZI

Ho sempre l’impressione, soprattutto quando vado all’estero, che gli stranieri ci guardino in maniera del tutto preconcetta e parziale, come se ci vedessero dal buco della serratura e avessero di noi solo una  visione di prospettiva limitata.
Per molti siamo mafia e maccheroni, mandolino e mammoni, italiani brava gente, ma un po’ facili e imbroglioni, siamo ‘O sole mio o al massimo un popolo di navigatori, santi e poeti.
Ma non è così.
Siamo innanzitutto un popolo immerso nella più sfolgorante bellezza naturale e artistica. Se è vero che l’arte –in tutte le sue sfaccettature- sta all’uomo come la natura sta a Dio, noi siamo la genìa più profondamente ispirata. E basta fare un giro per le vie di Roma, per le calli di Venezia, le  strade di Firenze, affacciarsi sul golfo di Napoli, respirare il profumo delle zagare di Sicilia, mangiare un cannolo con la ricotta, assaporare in bocca la scioglievolezza di una lasagna alla bolognese o il gusto di una parmigiana di melanzane un po’ arrostita, inebriarsi con un bicchiere di un buon vino rosso per comprendere quanto l’assunto sia vero.
Ma l’Italia non è solo questo, no davvero. Questa è solo la facciata, il volto noto del Bel Paese, come ebbe a dire Petrarca. Gli italiani sono geniali, intelligenti, intraprendenti, intuitivi, lavoratori. Gli italiani hanno gusto, sono gentili e umani, allegri e originali, hanno il senso della famiglia e della solidarietà, dell’accoglienza e della beneficenza, hanno cultura e ingegno. Gli italiani sono quelli virtuosi della Ferrari e della Fiat, quelli che hanno inventato, a Napoli, capitale dell’anima, il caffè sospeso. E ancora,  sono quelli delle frequenti crisi di governo e della Costituzione più bella del mondo, sono gli eredi degli antichi romani, i pronipoti di Cesare, i figli di Roma caput mundi, sono quelli che vivono un po’ all’ombra del Papa, sono quelli che hanno alle spalle le Alpi e di fronte il mare e i chilometri di costa più belli del pianeta.   
No, non la penso come Dante, l’Italia non è serva di dolore ostello, nave senza cocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello.
L’Italia è patria e mamma, è casa e nido, è il bello e il buono ed io ne sono –forse anacronisticamente- figlia adorante e grata.


IL VERLASCE per L'ANTOLOGIA PERRONE L'ERUDITA IL MOLISE CHE ESISTE

IL VERLASCE
di
Giuditta Di Cristinzi

Risultati immagini per FOTO VERLASCE VENAFROLa mia cartolina viene da Venafro, città in cui sono nata e vivo, nobile e storica, aperta e vicina al Lazio e alla Campania, nodo stradale, trafficata, amena, baciata dal buon clima.
L’immagine, un po’ sbiadita,  è quella del Verlasce, antico anfiteatro romano posto al centro del quartiere in cui sono cresciuta. Dopo un passato glorioso che fa risalire la sua origine al primo secolo dopo Cristo e ce lo fa immaginare teatro di crude lotte tra gladiatori e fiere, incitati da migliaia di spettatori, negli anni “70, età in cui l’ho vissuto, era ridotto a un insieme, un’ellisse per la precisione, di stalle di proprietà di privati, contadini e allevatori del posto, in cui erano tenuti attrezzi e mezzi agricoli, polli, galline, tacchini, conigli, pecore, agnelli, asini e cavalli, mucche e maiali. Diciamo pure che l’odore che vi si aspirava non era dei più gradevoli, eppure quell’afrore mi è caro alla memoria.
Era diventato ormai il teatro dei giochi dei bambini del vicinato, svaghi semplici, fatti di niente ovvero di tanta fantasia: nascondino, gallo zoppo, giochi con le pietre e con le mani, scorribande e gare in bicicletta dopo le quali si finiva spesso in lacrime e con le ginocchia sbucciate.
I contadini che l’abitavano negli immediati dintorni erano persone per bene, grandi lavoratori, braccianti agricoli, gente all’antica che si alzava all’alba, al canto del gallo, che andava alla stalla a mungere le vacche e a raccogliere le uova fresche e che subito dopo si recava in campagna sulle trainelle, le antiche carrette di legno tirate da un cavallo o più spesso da un mulo recalcitrante.
Cresciuta e studentessa, dal mio cantuccio, dietro il vetro del balcone dove mi rannicchiavo a leggere e scrivere  li vedevo passare e li sentivo incitare o frenare gli animali con uno scudiscio e a versi: hiiii, haaaa.
Pelle abbronzata in tutte le stagioni dell’anno, mani grosse, rovinate di fatica, lavoro quotidiano mai interrotto da ferie, vacanze, ponti, festività o  malattie.
Nel Verlasce  si svolgevano straordinari e corali i riti della vendemmia a ottobre, dell’ammazzata del maiale a gennaio, della preparazione della conserva di pomodori ad agosto, della raccolta e della pulitura delle olive a novembre, della preparazione del mais messo ad asciugare sotto il sole, davanti le case,  mosso di tanto in tanto con un’apposita pala lunga e piatta.
Molti coltivavano il tabacco e lo rivendevano al monopolio di stato. Una volta raccolto, in lunghe foglie verdi, veniva messo ad essiccare. Mi piaceva partecipare a questa consuetudine estiva a casa o meglio nel fondaco dei genitori di un’amica. Si metteva una lunga pertica di legno tra una sedia e l’altra, si legava un spago da una parte e con un grosso e lungo ago, simile a quello che si usava per cucire i materassi, si infilavano le foglie di tabacco e le si lasciava cadere una a destra, un’altra a sinistra, fino ad arrivare all’altra estremità della pertica. In seguito queste corolle di fumo futuro venivano messe su in alto, in un deposito arieggiato ad essiccare.
Ormai tutto questo Verlasce non c’è più e anch’io sono andata via. I moderni e potenti trattori hanno preso il posto delle trainelle, gli animali sono scomparsi, allevati lontano dall’abitato, i polli che finiscono sulle nostre tavole non sono più quelli ruspanti ma quelli di batteria, le stalle travolte dal terremoto dell’ “84 sono ancora diroccate e solo alcune costruzioni sono state oggetto di restauro, tutti gli accessi sono chiusi alle macchine, nessun vecchio gioca più a morra sotto il pioppo secolare, nessun bambino corre in bici, la fontanella non manda più acqua per abbeverare i cavalli.
Quando torno al Verlasce a trovare mia madre rivedo la cartolina sbiadita negli anni, penso a chi non c’è più e vengo presa dalla malinconia. Chiudo gli occhi per un attimo, assaporo il gusto dolce amaro dei ricordi di giovane e bambina e vado avanti per il mio cammino.





I V’rlasc
r
Giuditta Di Cristinzi


I song r Sant R’nat e ri V’rlasc, quand i Verlasc eva V’lasc addaver, prima ri tarramot.
Nell’antichità eva n’anfiteatr romano, begl ruoss, c z traseva ra tre part, i  ra via Quinto Vibio.
I eva criatura, c pazziavam a nascondino, a vrecc, a uall zuopp, iavam incoppa all b’c’clette, pigliavam la rincorsa ra na sagliuta v’cin a n puagliar. N puagliar, e mica eva un sul! Tutt i Verlasc eva pagliar e stall. N’addor!!!
Caglin, uall, pecura, vacch, vicc, cunigl, puorc.
Ai mes r gennaj f’braij ogn tant z senteva alluccà, n’acut, stev’n a accir a n puorc, tutt’ insiem, un aiutava a nat e nat aiutava a un. Raccugliev’n l sang p fa i sang’nat e po’ magnav’n tutt nsiem.
Z P’ppin e z Catarina jev’n in campagna tutt le matin priest ncoppa a na trainella, semp a faticà, gent r na vota. ‘Ndrea e Assuntina, Maria e Cosm, tal e quale, brava gent, faticatur.
Nova p’gliavam l latt frisch ra lloro e l faciavam volle ncoppa ai gas, altro che pastorizzato! Prima ra Lsandr e Rosina e po’ appriess, rent alla stradina, in ordine, a man a man ca z l’vavn l vacch.
I V’rlasc eva pur na scorciatoia p nn passà pi sctop,  addò c sctevn semp tanta macc’n.
Gl’uom’n sott a n chiupp, v’cin alla funtanella,   jucav’n a morra o c l bocc o z tratt’nev’n rent a na cantina.
Z m’tteva man a turn p smaltì n poc r vin. E m’ttavam man pur nova, bastava na fraschtella for ai cuarag e z spargeva la voce. Mamma t’neva i quartin, i miez litr, i litr. Gl’uom’n jucava’n a cart, b’vevn, z magnavan che cosa r cuc’nat rall m’glier.
Mo i Verlasc n c scta cchiù. Ra quant è fatt i tarramot ri 1984, l stall so chius, gl’an’mal z gl’hann l’vat, scta tutt mman alle Belle Arti e chisa quand z fa journ!




QUALCUNO DICE DI ME...

Giuditta Di CristinziTra le scrittrici italiane che vi proponiamo oggi, Giuditta Di Cristinzi (Venafro 7/2/1967) emerge giorno dopo giorno per la molteplicità della sua espressione artistica che spazia dalla poesia alla prosa.  La scrittura in versi mostra la raffinatezza e la ricercatezza della parola che scava in profondità nelle pieghe dell’anima  catturandone momenti di sorriso e di pianto. Lo stupore nell’osservazione delle cose e nelle persone che ci circondano nel nostro quotidiano sembra confermare la sintonia e l’interdipendenza  misteriosa dei sentimenti  del creato. La madre, la moglie, la figlia, la sorella   rappresentano per Giuditta presenze e ruoli essenziali e irrinunciabili a cui ancorarsi nei tormentosi  percorsi della sua mente pellegrina nella ostinata ricerca di risposte a domande,  che spesso restano inevase. È proprio quando la tortura esistenziale l’allontana pericolosamente dalla realtà che un’energia insperata la riporta alla vita. La curiosità dell’artista, istigata e sorretta dalla sua attività di avvocato, orienta la prosa verso il genere poliziesco ove il gusto dell’indagine si rende scusa di approfondimento della  conoscenza dei lati oscuri dell’animo umano.
Tuttavia, come introduzione alle opere della scrittrice, vogliamo incominciare con il proporre alcune filastrocche destinate al mondo dell’infanzia rivelatrici di una purezza di sentimenti e di una competenza linguistica capace di affascinare sia il mondo dei piccoli che quello degli adulti.
I GIORNI DELLA MERLA
 Gennaio, con freddo e gelo,
alla bella merla
con piume di perla
faceva oltraggio e dispetto.

Ella, allora, sola col suo piccino,
per tre dì si rifugiò su di un tetto
e per scaldarsi entrò in un camino.

Ne uscì a febbraio,
tutta sporca e nera,
sperando fosse già primavera.

Quando dalla caccia tornò il suo merlotto,
non riconobbe la  sposa di botto,
ma, udito il suo canto, ben presto capì.
Le volò accanto  e  per amore frinì.

Sembrava però un gruppo assai strano,
lui tutto  bianco, l’altra ebano
Allora il merlo si tinse di nero,
in segno eterno di amore sincero


L’INVERNO
 Dicembre, gennaio, febbraio,
solo un pettirosso o il passero gaio
solcano il bianco del cielo.
Freddo, pioggia, neve e gelo.

C’è Natale a scaldare il cuore
e poi si ricomincia con più ardore
La casa,  la  scuola ed  il lavoro,
a tavola, il maiale con l’alloro,
polenta, cavoli, mandarini,
salsicce, broccoli e tagliolini

I giorni della merla, poi la Candelora
e si dice “l’inverno è fora”.
Ora il dì è più lungo, la notte più breve,
piano piano si scioglie  la neve

Finchè un giorno senti frinire.
Allegro, l’inverno sta per finire!

CARNEVALE                                                                                                                                            Natale ormai è passato,
un altr’anno è cominciato
Il freddo ci stringe, ma non frena
la vena   di allegria
e allora via, via ….Ecco arriva il Carnevale,
ora  ogni  scherzo  vale
Andiamo  a scuola e nelle strade
mascherati, per case e per contrade,
o meglio per Regioni,
Pulcinella e Pantaloni,
Colombine e Balanzoni,
balla Gianduia, canta Arlecchino,
seppure poverino.
Ma al giorno d’oggi i bambini
vogliono nuovi vestitini
Inediti costumi nati in Tivvù,
visti sui fumetti o nei cartoons
Ninja Turtles e  Topolina,
Power Rangers e   Paperina,
Harry Potter col  tondo occhialino
sfida il vecchio Mago Merlino.
Tutti insieme si fa chiasso e festa.
Coriandoli, stelle filanti e una trombetta desta.
Dolci tipici, croccanti e buoni,
Graffe farcite e bomboloni
Su un vassoio ecco  le castagnole,
con chiacchiere o frappe,  come dir si vuole
La scrittrice Giuditta Di Cristinzi
Tutti giocano in compagnia
Carnevale è la festa dell’allegria!

Quiete serena

Mentre i giorni d'autunno si inseguono, io sto. Sto bene, ferma nel mio sole di novembre, a godermi l'amore sempiterno di mio marito...