IL VERLASCE
di
Giuditta Di Cristinzi
La mia cartolina viene da
Venafro, città in cui sono nata e vivo, nobile e storica, aperta e vicina al
Lazio e alla Campania, nodo stradale, trafficata, amena, baciata dal buon
clima.
L’immagine, un po’ sbiadita, è quella del Verlasce, antico anfiteatro romano posto al centro del quartiere in
cui sono cresciuta. Dopo un passato glorioso che fa risalire la sua origine al
primo secolo dopo Cristo e ce lo fa immaginare teatro di crude lotte tra
gladiatori e fiere, incitati da migliaia di spettatori, negli anni “70, età in
cui l’ho vissuto, era ridotto a un insieme, un’ellisse per la precisione, di
stalle di proprietà di privati, contadini e allevatori del posto, in cui erano
tenuti attrezzi e mezzi agricoli, polli, galline, tacchini, conigli, pecore,
agnelli, asini e cavalli, mucche e maiali. Diciamo pure che l’odore che vi si
aspirava non era dei più gradevoli, eppure quell’afrore mi è caro alla memoria.
Era diventato ormai il teatro dei
giochi dei bambini del vicinato, svaghi semplici, fatti di niente ovvero di
tanta fantasia: nascondino, gallo zoppo, giochi con le pietre e con le mani,
scorribande e gare in bicicletta dopo le quali si finiva spesso in lacrime e con
le ginocchia sbucciate.
I contadini che l’abitavano negli
immediati dintorni erano persone per bene, grandi lavoratori, braccianti
agricoli, gente all’antica che si alzava all’alba, al canto del gallo, che andava
alla stalla a mungere le vacche e a raccogliere le uova fresche e che subito
dopo si recava in campagna sulle trainelle,
le antiche carrette di legno tirate da un cavallo o più spesso da un mulo recalcitrante.
Cresciuta e studentessa, dal mio
cantuccio, dietro il vetro del balcone dove mi rannicchiavo a leggere e
scrivere li vedevo passare e li sentivo
incitare o frenare gli animali con uno scudiscio e a versi: hiiii, haaaa.
Pelle abbronzata in tutte le
stagioni dell’anno, mani grosse, rovinate di fatica, lavoro quotidiano mai
interrotto da ferie, vacanze, ponti, festività o malattie.
Nel Verlasce si svolgevano straordinari
e corali i riti della vendemmia a ottobre, dell’ammazzata del maiale a gennaio, della preparazione della conserva
di pomodori ad agosto, della raccolta e della pulitura delle olive a novembre,
della preparazione del mais messo ad asciugare sotto il sole, davanti le case, mosso di tanto in tanto con un’apposita pala
lunga e piatta.
Molti coltivavano il tabacco e lo
rivendevano al monopolio di stato. Una volta raccolto, in lunghe foglie verdi,
veniva messo ad essiccare. Mi piaceva partecipare a questa consuetudine estiva
a casa o meglio nel fondaco dei genitori di un’amica. Si metteva una lunga
pertica di legno tra una sedia e l’altra, si legava un spago da una parte e con
un grosso e lungo ago, simile a quello che si usava per cucire i materassi, si
infilavano le foglie di tabacco e le si lasciava cadere una a destra, un’altra
a sinistra, fino ad arrivare all’altra estremità della pertica. In seguito
queste corolle di fumo futuro venivano messe su in alto, in un deposito
arieggiato ad essiccare.
Ormai tutto questo Verlasce non c’è più e anch’io sono
andata via. I moderni e potenti trattori hanno preso il posto delle trainelle, gli animali sono scomparsi, allevati
lontano dall’abitato, i polli che finiscono sulle nostre tavole non sono più
quelli ruspanti ma quelli di batteria, le stalle travolte dal terremoto dell’
“84 sono ancora diroccate e solo alcune costruzioni sono state oggetto di
restauro, tutti gli accessi sono chiusi alle macchine, nessun vecchio gioca più
a morra sotto il pioppo secolare, nessun bambino corre in bici, la fontanella
non manda più acqua per abbeverare i cavalli.
Quando torno al Verlasce a trovare mia madre rivedo la
cartolina sbiadita negli anni, penso a chi non c’è più e vengo presa dalla
malinconia. Chiudo gli occhi per un attimo, assaporo il gusto dolce amaro dei
ricordi di giovane e bambina e vado avanti per il mio cammino.
I
V’rlasc
r
Giuditta Di Cristinzi
I song r Sant R’nat e ri V’rlasc, quand
i Verlasc eva V’lasc addaver, prima ri tarramot.
Nell’antichità eva n’anfiteatr romano,
begl ruoss, c z traseva ra tre part, i
ra via Quinto Vibio.
I eva criatura, c pazziavam a
nascondino, a vrecc, a uall zuopp, iavam incoppa all b’c’clette, pigliavam la
rincorsa ra na sagliuta v’cin a n puagliar. N puagliar, e mica eva un sul! Tutt
i Verlasc eva pagliar e stall. N’addor!!!
Caglin, uall, pecura, vacch, vicc,
cunigl, puorc.
Ai mes r gennaj f’braij ogn tant z
senteva alluccà, n’acut, stev’n a accir a n puorc, tutt’ insiem, un aiutava a
nat e nat aiutava a un. Raccugliev’n l sang p fa i sang’nat e po’ magnav’n tutt
nsiem.
Z P’ppin e z Catarina jev’n in campagna
tutt le matin priest ncoppa a na trainella, semp a faticà, gent r na vota.
‘Ndrea e Assuntina, Maria e Cosm, tal e quale, brava gent, faticatur.
Nova p’gliavam l latt frisch ra lloro e
l faciavam volle ncoppa ai gas, altro che pastorizzato! Prima ra Lsandr e
Rosina e po’ appriess, rent alla stradina, in ordine, a man a man ca z l’vavn l
vacch.
I V’rlasc eva pur na scorciatoia p nn
passà pi sctop, addò c sctevn semp tanta
macc’n.
Gl’uom’n sott a n chiupp, v’cin alla
funtanella, jucav’n a morra o c l bocc
o z tratt’nev’n rent a na cantina.
Z
m’tteva man a turn p smaltì n poc r vin. E m’ttavam man pur nova, bastava na
fraschtella for ai cuarag e z spargeva la voce. Mamma t’neva i quartin, i miez
litr, i litr. Gl’uom’n jucava’n a cart, b’vevn, z magnavan che cosa r cuc’nat
rall m’glier.
Mo i Verlasc n c scta cchiù. Ra quant è
fatt i tarramot ri 1984, l
stall so chius, gl’an’mal z gl’hann l’vat, scta tutt mman alle Belle Arti e
chisa quand z fa journ!
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