FRATELLI DIVERSI
di
GIUDITTA DI CRISTINZI
Ero
quasi euforico. Andai in ufficio ben presto e cercai di liberarmi il prima
possibile. Passai dal bar a prendere un latte caldo e mi avviai con
l’automobile verso Elbasan. Dopo pochi kilometri, cominciò a nevicare. Entrai
nella prima aria di servizio che trovai sulla via e feci montare le catene da
neve. Avevo avvertito Erika che non sarei tornato per il pranzo. Avevo tanta
voglia di rivedere mio fratello. Speravo davvero stesse meglio. Poverino, povero
Gazlind. La sua fragilità di sempre, la sua sensibilità erano state minate alle
fondamenta da troppi scossoni. La guerra, i disagi, la morte di mamma e di
papà. Eravamo rimasti soli, soli nella nostra grande casa. Adulti, sì, ma
segnati dai lutti e dalle scene orribili cui avevamo dovuto assistere. Io avevo
ancora gli incubi. Spesso Erika mi svegliava nel cuore della notte:
- Adamat,
Adamat, svegliati. Va tutto bene, è finita, stai solo sognando.
Mi svegliavo,
l'incubo si dissolveva. Bevevo un po' d'acqua, ma i rospi che l'inconscio aveva riportato alla memoria
non andavano giù. Chissà cosa doveva passare Gazlind se io stesso stavo ancora così male, mi
chiedevo, avanzando verso la meta, con prudenza, considerate le condizioni
della strada, man mano che salivo in altitudine. Povero Gazlind. Ma forse,
finalmente, ne stavamo venendo fuori. Speravo nell'esito della nuova terapia.
L'avrei riportato a casa con me, se non oggi stesso, qualche giorno prima del
Natale.
Mio fratello
non aveva resistito, non aveva retto a tutti gli urti della vita, lui, una
persona sopra le righe, sempre con la testa tra le nuvole, tra le sue note,
sensibile, delicato. Gazlind aveva studiato al conservatorio di Tirana e si era
diplomato col massimo dei voti in Pianoforte e Composizione. Solo, schivo,
riservato. Eternamente single. Poi era arrivata la guerra. I serbi avevano
distrutto le nostre vite, turbato giorni e notti. Avevamo dovuto arruolarci. Gazlind,
per orgoglio, per lealtà verso la patria, la famiglia e l'onorabilità del nostro
buon nome, non volle nemmeno tentare di essere riformato, di fare il servizio
civile ed era partito per il fronte, una settimana prima di me. Per tutto il
tempo aveva scritto alla mamma una lettera alla settimana. In coda ad ogni
lettera, le aveva dedicato una canzone, una melodia, una sinfonia, motivando la
scelta con poche, dolci, appropriate parole di figlio tenero e devoto. Ma la guerra
lo dilaniava dentro. Ogni granata, ogni sparo, ogni esplosione spappolava un
pezzo d'anima di Gazlind. Lui taceva, si isolava sempre più, incamerava dignitosamente. Ma dentro di lui
si era aperta una come voragine, nascosta all'esterno da riserbo e buona
educazione. Poi la mamma era stata attinta da una fucilata a tradimento,
all'uscita dalla chiesa; papà, l'anno dopo, era stato stroncato da un infarto
ed io, fratello più piccolo, avevo cercato di raccogliere i cocci delle nostre
vite e di ricominciare tutto da capo con Gazlind. Iniziai a svolgere la professione di avvocato
e a lui procurai lezioni private. Quando
suonava il piano o insegnava il solfeggio ai ragazzini, Gazlind si
rianimava, riviveva. Lo stimolai a fare il concorso per entrare nell'orchestra
del Teatro Nazionale. Aveva difficoltà a studiare, a reggere il ritmo di lezioni,
studio ed esami. Ma riuscì. Gazlind era
troppo bravo. Le sue dita volavano sui tasti dando vita ad arie di ogni genere.
Al piano il ragazzo magro, sottile, diafano, con i capelli corti e neri e la pelle chiara e trasparente diveniva tutt’uno
con la sua musica, ora forte e fragorosa, ora struggente e leggera, ora potente
e penetrante. Acquistava personalità. Intanto, a teatro Gaz aveva conosciuto Mirlinda,
un’étoile del corpo di ballo. Si erano innamorati e sposati nel giro di soli
sei mesi. Tutto sembrava andare per il meglio, quando Gazlind cominciò ad avere
i suoi primi disturbi. A volte si chiudeva in se stesso, a volte aveva crisi
quasi convulsive e faceva scenate, oppure accusava malori e restava tutto il
giorno a letto. I fantasmi della guerra, che in me erano quasi dissolti, nella sua testa avevano
ripreso corpo, anzi, lo possedevano. Nel giro di due mesi, Gaz perse lavoro e
amore. Fu licenziato dal teatro e Mirlinda lo lasciò, partendo per una tournée. Egli esplose.
Io non capivo come gestire la cosa e lo feci ricoverare. Dopo tre settimane di
degenza in ospedale a Tirana, il dottor FUSJI, lo psichiatra che lo aveva in cura, proposte di tentare a
sbloccare la situazione e di praticargli l'elettroshock. Rimasi perplesso, mi
documentari, consultai altri professionisti. Era l'ultima chance per cercare di
farlo riavere, di tornare in sé. Così
firmai l'autorizzazione.
La mattina fissata per l'intervento ero lì in ospedale per sostenere
mio fratello. Fu terribile. Gazlind rimase prostrato e sedato per tutto il giorno, delirando, nella
stanzetta dell'ospedale, al buio, con me che gli tenevo la mano, come avrebbero
fatto i nostri genitori, se ci fossero stati ancora.
L'indomani ebbi il permesso di portarlo a casa per un periodo di
riposo. Dopo qualche settimana di convalescenza, senza grossi risultati, i
dottori mi consigliarono di ricoverarlo nell'ospedale psichiatrico di Elbasan
per un periodo di riabilitazione.
I pensieri e i ricordi mi avevano fatto compagnia ed intanto ero
pressoché arrivato in prossimità dell'ospedale. Avrei prima parlato col dottor
Bosi, poi sarei andato a prendere Gaz
per portarlo a fare un giro nel parco
della città e riaccompagnarlo in ospedale, dopo pranzo, per il pomeriggio.
Quando arriva in ospedale, il dottore era occupato. L'infermiera mi
condusse direttamente nella stanza di Gazlind.
Lo salutai e dopo poche battute rimasi sconcertato. Aveva tra le mani un
foglio, un'inserzione scritta a mano, che mi consegnò perché la facessi pubblicare
nella Gazeta.
Uniformi militari acquistò fino al 1945 in contanti da privati
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- Sto preparando la nostra riscossa, Adamat, io stesso guiderò le
truppe e tu sarai il mio secondo, mi disse convinto, con gli occhi spiritati.
Fu un colpo allo stomaco. No, Gazlind non era guarito, come avevo sperato all’inizio del
mio viaggio. Presi coscienza della cosa in un attimo e lo condussi fuori di lì.
Avrei amato per sempre e comunque il mio fratello diverso.
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