CAPITOLO IV
Le cose cambiarono un pochino quando Giulio cominciò ad andare all'asilo.
Agli inizi, fu un dramma. Ovviamente non voleva stare in classe, essere
svegliato al mattino, essere vestito, preparato, uscire di casa, salire in
auto, transitare nel traffico, entrare in un ambiente nuovo, chiuso, vedere
persone nuove, tutte insieme. Ogni cosa lo metteva in subbuglio. Io me ne
rendevo conto, ma ero sfinita.
Indipendentemente dalla scolarizzazione, che doveva pur iniziare, e dai
vantaggi che anche lui avrebbe potuto riceverne in futuro, avevo bisogno di
liberarmi di Giulio per qualche ora al giorno. O sarei impazzita. Lo sapevo. Mi
sentivo terribilmente in colpa, ma non potevo fare altrimenti. Dalla scoperta
della malattia ero stata a casa, in aspettativa, e mi ero dedicata quasi
esclusivamente a lui. Oltre ai viaggi, ai medici, ai consulti e agli esami,
avevo vissuto le mie giornate dedicandomi alle faccende e a lui con amore e
abnegazione assoluti. Ero pronta ad accoglierlo tra le mie braccia al
risveglio, al mattino, a dargli un bacio, sempre. A volte, Giulio si strofinava
a me, mi leccava, mi baciava, mi stringeva. A volte, invece, mi respingeva,
correva via, mi calciava, mi graffiava.
Quando al mattino, al primo sguardo, capivo che era una giornata no, mi
crollava il mondo addosso. Disperata, avrei voluto battere la testa al muro,
dimenarmi come faceva lui, ma mi trattenevo, per trasmettere a tutti, ma
soprattutto a lui, serenità ed equilibrio; ricacciavo indietro le lacrime.
Tutta la nostra vita era cambiata.
Il tempo a disposizione per far tutto, in casa e fuori, e il danaro non
bastavano mai. C'era bisogno di ogni tipo di aiuto. Mi rendevo conto che io,
benché affranta, facevo quel che si doveva fare. L'istinto materno, o la
disperazione, o la speranza mi guidavano in tutto.
Lo stesso non era accaduto a Franco. Lui era solo attonito, assente,
sconvolto, taciturno. Richiesi il suo aiuto, soprattutto per Aurora. E sembrò
darmelo. Capivo che rischiavamo di creare una frattura in famiglia, non un nucleo ben
assortito di mamma, papà, sorellina e fratellino, ma io e Giulio da una parte e
Franco e Aurora dall’altra. Ma cosa potevo fare? Era una necessità e non vi era
altra via di scampo o di fuga.
Un giorno Aurora sarebbe divenuta una giovane donna e, forse, me ne
avrebbe fatto una colpa. Avevo iniziato a trascurarla e avrei continuato a
farlo. Lo stesso facevo nei confronti di mio marito, ma almeno lui ed io, mi dicevo, eravamo su un piano di
parità. Forse si aspettava da me le
stesse attenzioni che io attendevo da lui. Invano. Entrambi, deludendoci e
frustrando le legittime aspettative dell'altro.
Intanto, passarono i primi giorni di scuola. Durante le prime due
settimane avevano ammesso la mia presenza in aula. Giulio era in una classe
mista; gli altri bambini mi avevano preso per una specie di maestra. A meno che
lui non avesse delle crisi, restava nel suo cantuccio, canticchiava da solo,
giocava con le costruzioni, taceva fissando un punto, qualcosa presente solo a lui. Cominciai ad
allontanarmi dalla classe, gradualmente, sempre più lungo. A volte la cosa
funzionava, a volte no. Spesso mi chiamavano a telefono, mentre mi affrettavo
in qualche commissione. Dovevo essere reperibile in qualsiasi momento. Quando
succedeva, scappavo a scuola e cercavo di prendere in mano la situazione,
trovando di volta in volta una soluzione. Lo rassicuravo, lo calmavo. Talvolta
ero costretta a riportarlo a casa con
me.
CAPITOLO V
Intanto Aurora cresceva, dolce e matura. Risentiva della situazione del fratello e se ne
dispiaceva, in silenzio. Era divenuta più chiusa, seriosa. Aveva per lui sguardi amorevoli, a
volte, sbigottiti e spaventati. E per me sguardi interrogativi. Ma io le
rispondevo col silenzio o con qualche lacrima che, nonostante tutti buoni
propositi, mi sgorgava dal cuore, rigando il viso stanco. Altre volte le dicevo
qualcosa, per rassicurarla o perché sapesse, prendesse coscienza.
“Cara, Giulio è speciale, lo sai, come te, come me, come papà. Ognuno è
speciale a suo modo. Migliorerà, vedrai, crescendo maturerà, potrai giocarci,
potrete uscire insieme…”.
Decidemmo in famiglia e col dottore di far trascorrere a Giulio un anno
in più alla scuola dell'infanzia, ma venne il giorno della prima elementare. Lo
avevamo tanto preparato, caricato, istruito, ma sapevamo tutti di trovarci di
fronte ad un'incognita. Non tanto per i contatti con i compagni e i maestri,
già sperimentato, ma per il percorso dell'apprendimento.
Aurora frequentava già la quinta e si comportava come una donnina
assennata e responsabile, studiosa ed autonoma. Cercava di non dare alcun
problema e io me ne rendevo conto. In parte gliene ero intimamente grata e avrei voluto fare di
più per lei, in parte, stremata, ne approfittavo.
Franco continuava la sua silenziosa latitanza. Spesso non dormivamo
neanche più insieme. Io tenevo Giulio nel lettone, e a volte anche Aurora.
Lui cominciò ad imparare qualcosa, non voleva leggere e sembrava non
amare la matematica, ma scriveva, scarabocchiava, riempiva pagine e pagine di
cerchietti, linee, trattini, ossessivamente allineati e perfetti. Quando, dopo
le vacanze natalizie, iniziarono a comporre parole e pensierini, lui vergava
segni all'incontrario, scriveva da destra verso sinistra oppure come allo
specchio. Ovviamente c'era il maestro di sostegno e consultavano spesso uno
specialista, ma c'era poco da fare.
“Amore, solo amore”, mi ripeteva il pediatra come un mantra.
Questo era tutto quello di cui Giulio aveva bisogno, l'unica medicina,
l'unica esistente, la sola efficace. Ed io gliene davo in quantità. Ma ero
preoccupata per il nostro futuro, per Aurora, per il mio rapporto con Franco,
per i soldi.
Vivevo il mio lavoro, che intanto avevo ripreso, con fastidio, perché mi
sottraeva a lui, ma capivo perfettamente che, per quanto difficile, dovevo
cercare di mantenere in equilibrio tutte le tessere del mio complicato mosaico
e continuare a costruire il mio puzzle quotidiano con ferrea volontà,
accettando ogni evento, giorno per giorno.
CAPITOLO VI
Durante le elementari, cercai di far avvicinare Giulio a qualche sport,
ma non vi fu verso.
Aurora seguiva corsi di danza e di nuoto. Portai anche Giulio in piscina,
ma non resisteva nell'ambiente troppo riscaldato e non gradiva il contatto con
l'acqua, non voleva immergersi col corpo, tantomeno bagnare il viso. Tentai anche con qualcos'altro, ma
non era adatto ai giochi di squadra, né alla disciplina. Nei pomeriggi delle
belle giornate cominciammo a fare lunghe passeggiate. Per Giulio divenne una
bella, piacevole abitudine. Andavamo al parco, attraversando un paio di isolati
molto trafficati. Giulio camminava velocissimo, un piede dietro l'altro, sulle
punte, tracciava percorsi netti, simmetrici, calpestava ciottoli, a ritmo
sostenuto, mi costringeva a lunghe e faticose scarpinate, che talvolta erano
una piacevole distrazione. Una fuga da casa e dai pensieri. Quasi un gioco.
Cercavo di non pensare, di calarmi nel momento, di saltellare lieta dietro a lui.
Intanto, cresceva a vista d’occhio; era molto alto per la sua età. Alto e
magro, uno spilungone, con lunghi riccioli neri. Anche Aurora cresceva. Era una
ragazzina dolcissima, con capelli lunghi, castano dorati, gli occhi nocciola,
con pagliuzze verde oro che si accendevano in sguardi silenti, dolcissimi e
interrogativi.
Alla fine delle scuole medie, scelse di frequentare il liceo
classico. Era una ragazza assennata e
cercava di non darmi pensieri. A volte tentavo un approccio più intimo, una
confidenza, ma era chiusa quanto equilibrata, silenziosa quanto matura, dunque
non riuscivo a penetrare a fondo i suoi pensieri e a capire le sue esigenze più
intime. Aveva i suoi impegni scolastici, lo sport, le amiche e un filarino di
nome Marco, col quale scambiava continuamente messaggi al telefonino.
Finché Giulio poté definirsi un bambino, tutto andò avanti per la strada
segnata. La malattia, i controlli, le difficoltà quotidiane, le mie discussioni
con Franco.
Io mi sentivo, a volte carica e motivata ad accettare il mio destino,
ormai ineluttabile, a volte, affranta, seccata. Avrei voluto fuggire via a
lasciare tutto e tutti. Talvolta mi sorprendevo a sognare di poter avere un
nuovo amore, di poter essere inebriata da sentimenti, sensazioni, pensieri
positivi. E mi vergognavo per queste idee, inadeguate al mio stato, alla mia
situazione di madre particolare. Trascuravo ogni altra cosa, ogni altro
rapporto, amicale, effettivo, materiale. Ero solo la mamma di Giulio, mi
identificavo completamente con questo ruolo, con questa funzione totalizzante.
Mia madre non aveva più una figlia, mio marito non aveva più una moglie,
Aurora quasi non aveva più la mamma. Ed
io, cosa più grave di tutte, non avevo più me stessa. Ero come espropriata,
alienata da me. Spesso ricevevo i complimenti degli insegnanti o dei medici di
Giulio per le cure e le attenzioni incessanti di cui godeva. Ma, del resto, mi
sembrava di non avere alternative.
Mia madre tentava di starmi vicino, di aiutarmi come poteva, per evitare
che mi annullassi del tutto, per farmi avere qualche attimo di libertà dai miei
impegni schiaccianti.
“Cara, organizzati, almeno una sera a settimana, vai a mangiare una pizza
con Carla. Posso restare io a casa per una volta. Oppure ci penserà Franco”.
“Va bene, mamma grazie, ci proverò”.
“Vedrai che farà bene a tutti, anche a Franco e Giulio, che avranno modo
di stare un po’ insieme, da soli, tra uomini e senza te…”.
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