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venerdì 28 febbraio 2020

GIULIO ED IO PARTE II


CAPITOLO IV

Le cose cambiarono un pochino quando Giulio cominciò ad andare all'asilo. Agli inizi, fu un dramma. Ovviamente non voleva stare in classe, essere svegliato al mattino, essere vestito, preparato, uscire di casa, salire in auto, transitare nel traffico, entrare in un ambiente nuovo, chiuso, vedere persone nuove, tutte insieme. Ogni cosa lo metteva in subbuglio. Io me ne rendevo conto, ma ero sfinita.
Indipendentemente dalla scolarizzazione, che doveva pur iniziare, e dai vantaggi che anche lui avrebbe potuto riceverne in futuro, avevo bisogno di liberarmi di Giulio per qualche ora al giorno. O sarei impazzita. Lo sapevo. Mi sentivo terribilmente in colpa, ma non potevo fare altrimenti. Dalla scoperta della malattia ero stata a casa, in aspettativa, e mi ero dedicata quasi esclusivamente a lui. Oltre ai viaggi, ai medici, ai consulti e agli esami, avevo vissuto le mie giornate dedicandomi alle faccende e a lui con amore e abnegazione assoluti. Ero pronta ad accoglierlo tra le mie braccia al risveglio, al mattino, a dargli un bacio, sempre. A volte, Giulio si strofinava a me, mi leccava, mi baciava, mi stringeva. A volte, invece, mi respingeva, correva via, mi calciava, mi graffiava.
Quando al mattino, al primo sguardo, capivo che era una giornata no, mi crollava il mondo addosso. Disperata, avrei voluto battere la testa al muro, dimenarmi come faceva lui, ma mi trattenevo, per trasmettere a tutti, ma soprattutto a lui, serenità ed equilibrio; ricacciavo indietro le lacrime.
Tutta la nostra vita era cambiata.
Il tempo a disposizione per far tutto, in casa e fuori, e il danaro non bastavano mai. C'era bisogno di ogni tipo di aiuto. Mi rendevo conto che io, benché affranta, facevo quel che si doveva fare. L'istinto materno, o la disperazione, o la speranza mi guidavano in tutto.
Lo stesso non era accaduto a Franco. Lui era solo attonito, assente, sconvolto, taciturno. Richiesi il suo aiuto, soprattutto per Aurora. E sembrò darmelo. Capivo che rischiavamo di creare una  frattura in famiglia, non un nucleo ben assortito di mamma, papà, sorellina e fratellino, ma io e Giulio da una parte e Franco e Aurora dall’altra. Ma cosa potevo fare? Era una necessità e non vi era altra via di scampo o  di fuga.
Un giorno Aurora sarebbe divenuta una giovane donna e, forse, me ne avrebbe fatto una colpa. Avevo iniziato a trascurarla e avrei continuato a farlo. Lo stesso facevo nei confronti di mio marito, ma almeno  lui ed io, mi dicevo, eravamo su un piano di parità. Forse si aspettava  da me le stesse attenzioni che io attendevo da lui. Invano. Entrambi, deludendoci e frustrando le legittime aspettative dell'altro.
Intanto, passarono i primi giorni di scuola. Durante le prime due settimane avevano ammesso la mia presenza in aula. Giulio era in una classe mista; gli altri bambini mi avevano preso per una specie di maestra. A meno che lui non avesse delle crisi, restava nel suo cantuccio, canticchiava da solo, giocava con le costruzioni, taceva fissando un punto,  qualcosa presente solo a lui. Cominciai ad allontanarmi dalla classe, gradualmente, sempre più lungo. A volte la cosa funzionava, a volte no. Spesso mi chiamavano a telefono, mentre mi affrettavo in qualche commissione. Dovevo essere reperibile in qualsiasi momento. Quando succedeva, scappavo a scuola e cercavo di prendere in mano la situazione, trovando di volta in volta una soluzione. Lo rassicuravo, lo calmavo. Talvolta ero costretta a riportarlo a  casa con me.

CAPITOLO V

Intanto Aurora cresceva, dolce e matura. Risentiva  della situazione del fratello e se ne dispiaceva, in silenzio. Era divenuta più chiusa,  seriosa. Aveva per lui sguardi amorevoli, a volte, sbigottiti e spaventati. E per me sguardi interrogativi. Ma io le rispondevo col silenzio o con qualche lacrima che, nonostante tutti buoni propositi, mi sgorgava dal cuore, rigando il viso stanco. Altre volte le dicevo qualcosa, per rassicurarla o perché sapesse, prendesse coscienza.
“Cara, Giulio è speciale, lo sai, come te, come me, come papà. Ognuno è speciale a suo modo. Migliorerà, vedrai, crescendo maturerà, potrai giocarci, potrete uscire insieme…”.
Decidemmo in famiglia e col dottore di far trascorrere a Giulio un anno in più alla scuola dell'infanzia, ma venne il giorno della prima elementare. Lo avevamo tanto preparato, caricato, istruito, ma sapevamo tutti di trovarci di fronte ad un'incognita. Non tanto per i contatti con i compagni e i maestri, già sperimentato, ma per il percorso dell'apprendimento.
Aurora frequentava già la quinta e si comportava come una donnina assennata e responsabile, studiosa ed autonoma. Cercava di non dare alcun problema e io me ne rendevo conto. In parte gliene  ero intimamente grata e avrei voluto fare di più per lei, in parte, stremata, ne approfittavo.
Franco continuava la sua silenziosa latitanza. Spesso non dormivamo neanche più insieme. Io tenevo Giulio nel lettone, e a volte anche Aurora.
Lui cominciò ad imparare qualcosa, non voleva leggere e sembrava non amare la matematica, ma scriveva, scarabocchiava, riempiva pagine e pagine di cerchietti, linee, trattini, ossessivamente allineati e perfetti. Quando, dopo le vacanze natalizie, iniziarono a comporre parole e pensierini, lui vergava segni all'incontrario, scriveva da destra verso sinistra oppure come allo specchio. Ovviamente c'era il maestro di sostegno e consultavano spesso uno specialista, ma c'era poco da fare.
“Amore, solo amore”, mi ripeteva il pediatra come un mantra.
Questo era tutto quello di cui Giulio aveva bisogno, l'unica medicina, l'unica esistente, la sola efficace. Ed io gliene davo in quantità. Ma ero preoccupata per il nostro futuro, per Aurora, per il mio rapporto con Franco, per i soldi.
Vivevo il mio lavoro, che intanto avevo ripreso, con fastidio, perché mi sottraeva a lui, ma capivo perfettamente che, per quanto difficile, dovevo cercare di mantenere in equilibrio tutte le tessere del mio complicato mosaico e continuare a costruire il mio puzzle quotidiano con ferrea volontà, accettando ogni evento, giorno per giorno.

CAPITOLO VI

Durante le elementari, cercai di far avvicinare Giulio a qualche sport, ma non vi fu verso.
Aurora seguiva corsi di danza e di nuoto. Portai anche Giulio in piscina, ma non resisteva nell'ambiente troppo riscaldato e non gradiva il contatto con l'acqua, non voleva immergersi col corpo, tantomeno bagnare  il viso. Tentai anche con qualcos'altro, ma non era adatto ai giochi di squadra, né alla disciplina. Nei pomeriggi delle belle giornate cominciammo a fare lunghe passeggiate. Per Giulio divenne una bella, piacevole abitudine. Andavamo al parco, attraversando un paio di isolati molto trafficati. Giulio camminava velocissimo, un piede dietro l'altro, sulle punte, tracciava percorsi netti, simmetrici, calpestava ciottoli, a ritmo sostenuto, mi costringeva a lunghe e faticose scarpinate, che talvolta erano una piacevole distrazione. Una fuga da casa e dai pensieri. Quasi un gioco. Cercavo di non pensare, di calarmi nel momento, di saltellare  lieta dietro a lui.
Intanto, cresceva a vista d’occhio; era molto alto per la sua età. Alto e magro, uno spilungone, con lunghi riccioli neri. Anche Aurora cresceva. Era una ragazzina dolcissima, con capelli lunghi, castano dorati, gli occhi nocciola, con pagliuzze verde oro che si accendevano in sguardi silenti, dolcissimi e interrogativi.
Alla fine delle scuole medie, scelse di frequentare il liceo classico.  Era una ragazza assennata e cercava di non darmi pensieri. A volte tentavo un approccio più intimo, una confidenza, ma era chiusa quanto equilibrata, silenziosa quanto matura, dunque non riuscivo a penetrare a fondo i suoi pensieri e a capire le sue esigenze più intime. Aveva i suoi impegni scolastici, lo sport, le amiche e un filarino di nome Marco, col quale scambiava continuamente messaggi al telefonino.
Finché Giulio poté definirsi un bambino, tutto andò avanti per la strada segnata. La malattia, i controlli, le difficoltà quotidiane, le mie discussioni con Franco.
Io mi sentivo, a volte carica e motivata ad accettare il mio destino, ormai ineluttabile, a volte, affranta, seccata. Avrei voluto fuggire via a lasciare tutto e tutti. Talvolta mi sorprendevo a sognare di poter avere un nuovo amore, di poter essere inebriata da sentimenti, sensazioni, pensieri positivi. E mi vergognavo per queste idee, inadeguate al mio stato, alla mia situazione di madre particolare. Trascuravo ogni altra cosa, ogni altro rapporto, amicale, effettivo, materiale. Ero solo la mamma di Giulio, mi identificavo completamente con questo ruolo, con questa funzione totalizzante.
Mia madre non aveva più una figlia, mio marito non aveva più una moglie, Aurora quasi non aveva più la  mamma. Ed io, cosa più grave di tutte, non avevo più me stessa. Ero come espropriata, alienata da me. Spesso ricevevo i complimenti degli insegnanti o dei medici di Giulio per le cure e le attenzioni incessanti di cui godeva. Ma, del resto, mi sembrava di non avere alternative.
Mia madre tentava di starmi vicino, di aiutarmi come poteva, per evitare che mi annullassi del tutto, per farmi avere qualche attimo di libertà dai miei impegni schiaccianti.
“Cara, organizzati, almeno una sera a settimana, vai a mangiare una pizza con Carla. Posso restare io a casa per una volta. Oppure ci penserà Franco”.
“Va bene, mamma grazie, ci proverò”.
“Vedrai che farà bene a tutti, anche a Franco e Giulio, che avranno modo di stare un po’ insieme, da soli, tra uomini e senza te…”.

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