L’UOMO CHE AVEVA FRETTA
Cercò il nome sul citofono, con lo sguardo miope. Pigiò un tasto.
- Secondo piano, gracchiò una voce maschile.
Un cancello, un portone, un altro, due gradini. Diede uno sguardo al
vecchio ascensore, di quelli con la porta esterna e i due sportellini dietro,
rivestiti di radica di mogano e ottone. Scelse le scale, le fece in pochi
balzi. Arrivato su, in cima al pianerottolo, non ebbe neanche il tempo di
guardare. Vide una porta socchiusa, senza indicazioni, fece capolino, entrò e
si richiuse la porta alle spalle. Un'occhiata nel corridoio, poi si diresse
nella prima stanza.
- Chiedo scusa,...-
- Prego, prego, sei un po' in ritardo. Siediti, ci
presenteremo dopo. Lì, in fondo dovrebbe esserci una sedia libera. –
Prima di capire e di realizzare,
Luca si infilò tra le sedie disposte in doppia fila, aprendosi un varco che
immediatamente si richiuse al suo passaggio. Arrivò in fondo alla stanza e si
sedette. Dopo un attimo di esitazione, lasciò cadere a terra, quasi sconfortato,
la sacca che aveva con sé. Cominciò a guardarsi intorno perplesso. Noi eravamo
presi dalla proiezione del film che ci stava propinando Marinella, in penombra.
Il tipo non guardava. Era completamente distratto da qualcos'altro.
- Zzzzz...- intimò il silenzio il secchione in prima fila, per soffocare
il brusio che si era creato con l'ingresso in aula dello sconosciuto. Questo si
fece piccolo piccolo e zittì, proprio mentre cercava di articolare una risposta
alla mia veloce presentazione e alla mia domanda. Accavallò le gambe e cominciò
a battere ritmicamente a terra con la punta del piede. Guardò nervosamente
l'orologio. Guardai anch’io. Le 09.51. Rivolse lo sguardo fuori dal balcone
semiaperto. Decine e decine di cicche di sigaretta, nei vasi, a terra,
nell'angolo, sul davanzale. Doveva viverci una
tribù di turchi, sembrò pensare.
Era leggermente scarmigliato, rosso in viso,
con la barba di due tre giorni,
tutto sommato carino. La pellicola scorreva e il tizio vi buttava di
tanto in tanto uno sguardo distratto. Cavolo, stava distraendo anche me. Guardò
di nuovo l’orologio e poi ancora e ancora, ogni venti, trenta secondi.
Tamburellava piano le dita sul bracciolo della sedia. Poi cominciò a mangiarsi
le unghie della mano sinistra.
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