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sabato 29 febbraio 2020

GIULIO ED IO PARTE III

...SEGUE...


CAPITOLO VII

Il tempo trascorreva  veloce; a me pesava come se fosse doppio. Annegavo nella quotidianità, mille cose da fare, ma se mi fermavo a pensare mi prendeva il panico. Mi chiedevo come sarebbero stati gli anni futuri, come sarei invecchiata, cosa avrebbe potuto fare Giulio da grande o, un giorno lontano, senza di me. Alla fine delle scuole medie, gli avrei fatto frequentare una scuola professionale, per imparare un mestiere, per addestrare la sua manualità, portata per il disegno, i grafismi. Avremmo dovuto trovare qualcosa che sfruttasse il suo schematismo mentale.
“Magazziniere in una farmacia o addetto di una cartolibreria? Boh, vedremo”, mi dicevo.
Intanto cercavo di sfruttare tutti possibili permessi per motivi di famiglia, i benefici della legge 104, la malattia e via discorrendo. Ero entrata in un gruppo, a Roma, “Mio figlio, l’autismo ed io", una onlus  che organizzava incontri, corsi, convegni, banca delle ore. Ci si riuniva in un cinema dismesso ogni primo giovedì del mese, per chiacchierare e confrontarsi. A volte gli incontri erano solo per i genitori; talvolta, invece, aperti anche ai ragazzi. Spesso ospitavamo medici ed educatori esperti. Un giorno riuscii, non so come, a trascinarci anche Franco, ma una volta sola. Non volle venire mai più. Incontrare altri genitori come noi, parlare dell'argomento significava oggettivare, rendere ancora più reale un fatto dal quale cercava di fuggire. In questi incontri conobbi, Mario e Luisa, due simpatici ragazzi marchigiani. Loro avevano due figli maschi gemelli, più piccoli di Giulio, entrambi autistici. Si facevano forza a vicenda, andando avanti su quella strada in salita che la vita  aveva riservato loro. Io facevo sempre  ricerche, mi documentavo, studiavo, speravo in qualche scoperta scientifica, in un vaccino, in una medicina nuova, ma nulla. Nulla di nuovo.

CAPITOLO VIII

A giugno, finalmente, Giulio terminò le elementari. Trascorremmo un breve periodo di vacanza in campagna., facendo sempre lunghe passeggiate. Lui era un vero camminatore, un passo dietro l'altro, veloce, costante, monotono. Non voleva fermarsi mai, non sarebbe mai rientrato a casa. Amava l’aria aperta e amava muoversi. Io non mi sentivo di lasciarlo solo e quindi ero costretta a seguirlo o, perlomeno, a tenerlo d’occhio. Talvolta era divertente, talvolta mi stancavo o avrei voluto fare altro.
A settembre, iniziò a frequentare la scuola media. Fu piuttosto nervoso durante le prime settimane. Aveva cambiato istituto, classe, compagni, insegnanti e per lui era più complicato che per gli altri adeguarsi. Si chiudeva in se stesso, non parlava e, se costretto a fare qualcosa, si ribellava, anche  con violenza. Cresceva a vista d'occhio, era molto più alto dei suoi compagni di scuola, anche perché aveva ripetuto un paio d'anni, tra asilo ed elementari. Aveva sempre un appetito famelico, spesso era smanioso, inquieto. Modificò la sua voce, cambiò odore, cominciarono a spuntargli  i primi peli e  un abbozzo di morbida barba, oltre a tanti brufoletti  in viso. Sempre più spesso voleva uscire a fare la sua passeggiata in punta di piedi. Certo, mi tenevo in forma, ma a volte era sfiancante stargli dietro. Camminava, camminava, camminava. Da quando era cresciuto, lo lasciavo fare un po' da solo. Andavamo al parco, vicino casa; io sedevo leggere un giornale o a chiacchierare con qualcuno e lui aveva il permesso di muoversi da solo,  un po' più liberamente, senza uscire però mai dalla mia vista. Era un tenero pasticcione, un timido. Aveva un rapporto un po' conflittuale con cani, coi quali si imbatteva ai giardinetti. Se abbaiavano, si irrigidiva, si bloccava. A volte li ignorava, a volte restava a fissarli. Non riuscivo a capire cosa rappresentassero per lui, se lo incuriosissero o spaventassero. Certo, non lo lasciavano indifferente, come accadeva per molte altre cose.
Avrebbe sempre voluto dormire con me, ma oramai era grandicello e cercavo di evitarlo. Stava crescendo in fretta, almeno nel corpo.
“Povero Giulio, come avremmo fatto quando fosse diventato un uomo?”, mi chiedevo. Tutto era più complicato con un figlio così. La scuola, l'apprendimento, il futuro, il lavoro, le relazioni sociali, affettive e, forse, un giorno anche le sue esigenze fisiche ed emotive. Avrei dovuto parlarne la prossima volta in associazione, prima che la questione divenisse  più urgente. Giulio era legatissimo solo a me; nei confronti degli altri era distante, non riusciva ad avere relazioni forti, amichevoli, intime, a scuola, con i compagni, con gli insegnanti. Tollerava le altre figure familiari, accettava le tenere carezze di mia madre, gli sguardi affettuosi e avvolgenti di Aurora. Era freddo col padre. Forse perché percepiva in lui un atteggiamento di non  totale accettazione.
Ma io ormai avevo smesso di fargliene una colpa. Da più di dieci anni convivevo con questo fardello gravoso. In passato, mi aveva fatto tanta rabbia. Avevo disprezzato Franco e sua madre, per il loro egoismo, i loro limiti, la loro vergogna, l'incapacità di accettare, di capire la realtà e interagire. Ora li avevo assolti. Per me stessa più che per loro. Avevo bisogno di conservare le mie energie, di non andare alla deriva, di provare sensazioni e sentimenti positivi. Quelli negativi erano inutili e facevano star male soprattutto me. Dunque via. Una specie di intelligenza emotiva, istintuale e spontanea si era fatta spazio dentro di me col passare del tempo. Tutto era già troppo complicato per avere pensieri pesanti e risentimenti.
Aurora, intanto, aveva terminato il liceo e si era iscritta all'università. In quell'occasione, ero riuscita come non mai ad esserle vicina. Le avevo parlato  molto durante tutta l'estate.
“Auri, guarda solo dentro di te. Non lasciarti influenzare da nulla. Non pensare a me e a Giulio, non pensare alle aspettative di papà o al denaro che ci potrà costare l'università. Scegli la facoltà e la sede che vuoi. Sentiti libera, è la  tua vita”,  le ripetevo spesso.
Lei riuscì a fare una scelta autentica. Abbandonò pian piano tutte le false idee, l'intenzione di restarmi vicina, di sacrificarsi, di fare qualcosa per conoscere meglio l'autismo, per aiutare Giulio. Si iscrisse a Scienze delle Comunicazioni, perché voleva fare la giornalista. L'aveva desiderato da sempre. Quand'era piccola restava affascinata dalla Gruber, che si stagliava  dal piccolo schermo con la sua figura piccola e forte, di tre quarti, leggendo le notizie belle e brutte al TG. Aurora si appassionò  subito alle lezioni, allo studio, alle esercitazioni.
Stava arrivando l'inverno ed io volevo accoglierlo non al solito modo, come un rimpianto, un abbandono al sole e al caldo dell'estate, ma come l’ingresso in un rifugio più intimo, in un'altra dimensione. Avrei cercato di godere di più la casa, il tepore del nostro camino, il sapore delle castagne arrosto, la tv accesa e Giulio ed io distesi sul divano, con un plaid addosso.
“Cucciolo mio, cos’hai? Vieni qua, vieni dalla tua mamma”.
 Giulio si faceva abbracciare, si strofinava contro di me, come aveva sempre fatto. Anche se ora c'era questa nuova cosa in lui, un’imbarazzante novità. Si svegliava preda dei suoi impulsi e non sapeva cosa fare. Era tanto nervoso a volte. Dovevo assolutamente aiutarlo, aiutarlo a gestire la sua sessualità, a capire che poteva e doveva vivere le nuove sensazioni, senza domande, senza vergogna, senza frustrazioni. Capivo quanto per lui fosse difficile poter avvicinare una compagna di scuola, una prof, una persona al parco. Come avrebbe fatto a vincere la sua ritrosia, la paura, l'impossibilità di avere rapporti normali, affettuosi, intimi con gli altri? Lui non permetteva a nessuno di toccarlo, di fargli una carezza o di dargli una pacca sulla spalla, a nessuno consentiva di toccargli la testa, di mettere le dita tra i suoi riccioli morbidi e neri. Solo a me. Non volevo che Giulio soffrisse, che provasse imbarazzo e non volevo che potesse suscitare l'ilarità ottusa di qualcuno di fronte ad una compulsione improvvisa, in pubblico.

CAPITOLO IX

“Ciao Margherita, a lunedì”, feci dopo aver timbrato il cartellino, uscendo dall'ufficio.
“Ciao Francesca, stammi bene!”, mi rispose lei, in tono gioviale come sempre.
Andai al parcheggio, presi l’auto e mi rassegnai a impiegare il doppio del tempo necessario per rientrare, per via del traffico e della pioggia battente. Arrivata a casa, mi annunciai con una scampanellata, mentre cercavo le chiavi in borsa per entrare. Auri mi precedette, aprendomi la porta.
“Ciao mamma, tutto ok?”, mi chiese premurosa.
“Sì, cara e tu? Hai studiato tutto il giorno?”.
“Sì, giovedì abbiamo un'esercitazione e non voglio sbagliarla. Voglio essere abbastanza preparata.”
“Bene, ma cerca anche di distrarti un po' nel weekend, esci. Marco possa prenderti stasera?”
“No, mamma, stasera no. Voglio andare a letto presto. Domani pomeriggio andremo al cinema e poi a mangiare una pizza.”
“Giulio che fa, è tranquillo?”,  chiesi.
“Sì, abbastanza. È tornato da scuola, gli ho preparato la merenda e ho cercato di distrarlo un po' con le costruzioni, ma non ne ha voluto sapere. E’ di là, impalato davanti alla tv”.
“Ok, vado a salutarlo...”.
Giulio frequentava ormai la terza media ed aveva l'orario prolungato. Avevo fatto in modo che si abituasse ad andare e a tornare da scuola col pulmino. C'era una graziosa assistente sullo scuolabus, Rossella, che lo prendeva in consegna al mattino e lo riaccompagnava il pomeriggio. Lui per fortuna l’aveva accettata, pur restando come al solito indifferente, ma  tollerante. Sull'autobus gli conservavano sempre lo stesso posto a sedere e lui se ne restava tranquillo così, in genere.
“Buonasera, tesoro mio. Come va? Cosa guardi? “
“Mamma, …”. 
Giulio mi guardò per un attimo, poi tornò al suo telefilm. Che pena. Ogni volta che incontravo il suo sguardo non potevo non pensare a quello che Giulio era e al figlio che avrebbe invece potuto essere e che non avrei mai avuto.
“Hai fame?”, chiesi. “Preparo la cena, così  quando rientra papà sarà tutto pronto. Che c’è?”.
Quasi sempre le mie domande restavano senza risposta. Me ne andai in cucina per mettere insieme qualcosa da mangiare. Poco dopo Franco telefonò per dire che sarebbe rientrato tardi. Andava a cena con due colleghi, dopo le solite ore di straordinario. Cominciavo a pensare che avesse una relazione, ma stranamente la cosa mi lasciava indifferente. Avevo altro cui pensare. Vivere un’esistenza passabile, decente, nonostante tutto, nonostante Giulio, la solitudine, l'indifferenza di Franco, la stanchezza, la pioggia e l'inverno alle porte. Ma sì, dovevo pur andare avanti. Un pensiero strano, inatteso mi attraversò la mente. Le cose forse potevano cambiare. Non era detto che tutto fosse compiuto, che la mia vita finisse lì, nelle quattro mura del mio dolore, della malattia e  della fatica. Avrei aiutato il mio ragazzone a crescere, per quanto possibile, gli avrei fatto imparare un mestiere in cui potesse utilizzare le sue manie, l'avrei aiutato a gestire i suoi impulsi sessuali, ormai sempre più forti, sempre più frequenti. Pensavo che avrebbero potuto, se indirizzati, se canalizzati nel giusto modo, aiutarlo ad aprirsi, ad avere rapporti con altre persone oltre che con me.

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