Dedicato a tutte le mamme del mondo,
particolarmente alle mamme di
figli speciali
CAPITOLO I
Mi svegliai nel cuore della notte.
C’era tanto vento. Sibilava forte tra i rami. Mi innervosiva. Mi alzai e scesi
giù. Il vento scuoteva tutto, anche i miei pensieri. Tutto il mio essere.
Minacciava pioggia. Uscii fuori nel buio e raccolsi i panni stesi ad asciugare
dal giorno prima. Andai in bagno. Avevo uno stimolo continuo. Cercai di fare un
po’ di training, di respirazione, ma invano. Ero completamente preda
dell’ansia. Risalii su, andai di nuovo in bagno. Un dolore dietro l’altro.
Svegliai Franco.
“Sto male, è ora di andare.”
Ci vestimmo in fretta. Franco prese
la valigia, ormai pronta da qualche settimana, e andò a prendere mia madre.
Fece in un attimo, mentre io mi torcevo dal dolore, sempre più incalzante, sul
divano. L’utero si contraeva. Sentivo che voleva liberarsi in fretta. Era il
mio secondo figlio e sapevo che avrei avuto un travaglio meno lungo e doloroso
che per Aurora. Franco rientrò in casa con mamma, che lasciammo in casa a
vegliare sulla piccola.
“In bocca al lupo, cara, andrà tutto
bene, vedrai. Ormai sei una supermamma.”
“Crepi, mamma, grazie. Ci vediamo
domattina. Appena possibile, in orario di visite, mando Franco a prendere te ed
Aurora. Ciao.”
Arrivammo in ospedale. Ero pronta.
Mi sistemarono velocemente e mi portarono direttamente in sala parto.
“E uno, e due, e tre, alla
prossima!”
Alla seconda spinta venne alla luce
il mio Giulio. Fece appena un piccolo nghè.
Era piccolo, nero, bagnato, sporco. Tenero tenero. Ero stanca e felice. Avevo
coronato tutti i miei sogni di ragazza. Una bella casetta a due piani con un
po' di giardino, un marito tranquillo, due figli, una femminuccia e un
maschietto, un lavoro.
Pensieri, ricordi, sensazioni mi attraversavano la mente. Mentre lavavano
e preparavano Giulio, il dottore sistemò me con due punti di sutura
sull'episiotomia. Mi riportarono in camera. Ero stanca morta e chiesi di poter
dormire un po’.
Il riposo non durò a lungo e fu solo un leggero dormiveglia. Nella stanza
in penombra non ero sola.
Voci, figure, campanelli, sogni, immagini. Alle dodici circa, aprirono le
porte del reparto e iniziò la processione delle visite. Mamma con Aurora,
Franco con mia suocera, mio fratello, mia sorella, Carla, Anna Rita, ...
Avevo tanta fame, ma non volevo dar fastidio. Avrei aspettato il rancio
dell'ospedale e avrei mangiato quello. Sicuramente, pensavo, mi toccherà una
dispersione di pastina in brodo della più tipica, ospedaliera e scotta, e una
fetta di carne arrosto con insalata. Evviva!
Un bel caffè, ecco cosa volevo davvero. Un caffè bollente per tirarmi su.
L’avrei chiesto a Franco se non fosse scivolato via dalla stanza, alla prima
occasione, prima degli altri, col pretesto di riaccompagnare la madre a casa.
Ma sì, in fondo sapevo che più che il mio compagno era come un altro figlio, il
più grande, il più bisognoso di cure, il più insofferente. Lui, il lavoro, il
bar e il calcetto. E, naturalmente, la mamma. Il suo mondo era circoscritto in
questi angusti confini. Tutto sommato l'avevo sempre saputo. Come sapevo che
c'era di peggio nel panorama maschile, dunque dovevo accontentarmi.
Quando tutti furono andati via, la nurse mi portò Giulio, con la sua
bella tutina nuova, avvolto in un soffice telo, le manine scure, raggrinzite,
chiuse a pugno. Lo presi in braccio e fu subito amore a prima vista e lacrime
di commozione. Tirai fuori un seno e glielo offrii e lui, piccino piccino, non
tardò a capire. L'odore, forse, lo inebriò prima di ogni cosa, occhi socchiusi,
boccuccia secca, trovò il capezzolo e si attaccò, succhiando d’istinto. I
nostri ormoni facevano il loro lavoro. L'ossitocina mi stava facendo sciogliere
in un rivolo di latte, di rilassatezza, di amore che, nato in quel momento,
sarebbe solo cresciuto e non avrebbe visto mai più fine.
CAPITOLO II
Aurora prendeva Giulio per mano e
tentava di portarlo fuori in giardino. Voleva giocare col suo fratellino, ma
lui scappava via; non ne voleva sapere. Lei, sempre ciarliera e allegra, faceva
l'ultimo anno di asilo. A settembre anche Giulio avrebbe cominciato con la
scuola dell'infanzia. Io mi barcamenavo tra loro due, la casa e il lavoro
part-time.
Un giorno come tanti, mentre stiravo e li seguivo con lo sguardo, accadde
qualcosa di nuovo.
Aurora stava giocando con la sua cucina, con pentoline, piattini,
coperchi. Giulio prendeva, ad una ad una, le cose della sorella e le allineava
con precisione l'una dietro l'altra, sul bordo del camino spento. Auri riprendeva le sue pentoline e le risistemava
sulla piccola cucina. Giulio, da capo, gliele sottraeva e le riallineava.
Cominciarono a litigare. Lui le strappò di mano tutti i piattini, li lanciò a
terra, li calpestò, la graffiò in viso e scappò via. Si rifugiò in un angolo
della stanza, dietro le tende, accovacciato a terra. Spensi il ferro da stiro e
andai da loro. Presi la piccola e la consolai, tenendola tra le braccia.
“E’ cattivo, mamma, Giulio è cattivo”, piagnucolò Aurora.
Lo cercai, alle spalle del divano. Lo trovai nascosto dietro la tenda, in quello che
sarebbe divenuto il suo angolo preferito. Lo sgridai, tentai di sculacciarlo,
ma mi fermai presto. Era assente, non un'emozione sul viso bellissimo e scuro,
incorniciato da riccioli neri. Aveva uno sguardo vacuo, perso nel vuoto, uno
sguardo che cercai invano.
“Che succede?”, mi chiesi.
CAPITOLO III
Gli episodi di assenza di Giulio, le sue improvvise fughe a nascondersi,
le liti con Aurora che voleva solo giocare e interagire con il fratellino, si ripeterono sempre più spesso,
durante tutta la primavera. Andammo dal nostro pediatra e poi a Roma, al
Bambino Gesù; facemmo esami e visite. Ma io conoscevo già la risposta.
L'intuito, il sesto senso di una mamma funziona ancora più di una T.A.C. o di
qualsiasi altro esame.
Giulio era
autistico. Iniziai a provare una pena infinita. La mia vita e la sua erano
segnate per sempre. Giulio aveva cominciato a camminare e a parlare più o meno
regolarmente, intorno ad un anno di età. Ora, invece, parlava sempre meno, a
volte, era come impietrito. Indicava le cose che voleva, che non poteva
raggiungere da solo. Io ero sconvolta, a momenti affranta, a tratti piena di
un’ottusa speranza. Cominciai a non dormire bene la notte. Mi alzavo e andavo a
vigilare sul suo sonno, mi accertavo che respirasse bene, pensavo, rimuginavo
sul perché una cosa del genere fosse capitata proprio a noi. Mi chiedevo cosa
avremmo fatto più in là, come si sarebbe evoluta la malattia. Sì, la malattia.
Dovevo fare i conti con la realtà, chiamare le cose con nome e cognome. Presi
un periodo di aspettativa al lavoro per dedicarmi solo a Giulio e per capire
cosa era l'autismo, cosa potevo fare per aiutarlo, perché almeno non progredisse, non peggiorasse.
Franco, forse, era anche più colpito di me, ma capii subito che, in
quella battaglia che la vita aveva ammesso sul nostro cammino, non saremmo
stati insieme. Reagì come rifiutando la realtà. Continuò la sua vita di sempre.
Al mattino, praticamente, fuggiva
via, accompagnava Aurora a scuola e
andava al lavoro; un paio di pomeriggi alla settimana faceva il rientro in
ufficio. In effetti, stava fuori casa sempre di più, sempre più spesso. Faceva
gli straordinari o prendeva un po' di lavoretti extra e restava in ufficio,
“per arrotondare”, mi diceva.
Il sabato mattina, in genere, ci dedicavamo insieme alla spesa, alle
commissioni della settimana, ma un paio di volte Giulio creò tanti di quei
problemi al centro commerciale, che perdemmo anche questa abitudine. Franco si
imbarazzava per queste scenate in pubblico. Nel pomeriggio di ogni sabato se ne
andava a fare la sua immancabile partita di calcetto, qualsiasi cosa fosse
accaduto. Io mi sentivo sola. Ero sola.
Mia madre mi aiutava come poteva, soprattutto con Aurora, che aveva
capito ormai di avere un fratellino speciale. Non volevo che ne soffrisse
troppo, che si sentisse penalizzata, ma
bisognava fare i conti con la realtà e lei li aveva già fatti, in
maniera più semplice ed immediata di noi adulti.
I nostri sogni si erano infranti sulla roccia di quella malattia subdola,
che non aveva cure, che non aveva regole, né soluzioni.
Aurora presto si rassegnò e cominciò ad assecondare gli strani tempi di
Giulio. A volte potevano stare insieme, a volte no. Naturalmente lei non poteva
ricevere troppo spesso le amichette a casa perché il fratello si innervosiva
dinanzi a qualsiasi novità; aveva
bisogno di tutto il suo tempo, di tutti i suoi spazi. Vuoti.
Alcune giornate trascorrevano più tranquille. Si metteva al suo posto,
vicino al camino spento e allineava le
cose, si incantava davanti alla tv o disegnava. Parlottava da solo,
canticchiava. Altre volte era nervoso, violento, si sbatteva a terra, non
voleva mangiare, non voleva farsi lavare o vestire.
Io andavo avanti alla giornata.
... segue
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