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giovedì 27 febbraio 2020

GIULIO ED IO

Giulio ed io è un racconto un po' particolare, che ho scritto pensando a una persona. Tratta un tema delicato e sensibile, quello dei figli con disabilità e delle loro mamme.





Dedicato a tutte le mamme del mondo,
 particolarmente alle mamme di figli speciali

  
CAPITOLO  I

            Mi svegliai nel cuore della notte. C’era tanto vento. Sibilava forte tra i rami. Mi innervosiva. Mi alzai e scesi giù. Il vento scuoteva tutto, anche i miei pensieri. Tutto il mio essere. Minacciava pioggia. Uscii fuori nel buio e raccolsi i panni stesi ad asciugare dal giorno prima. Andai in bagno. Avevo uno stimolo continuo. Cercai di fare un po’ di training, di respirazione, ma invano. Ero completamente preda dell’ansia. Risalii su, andai di nuovo in bagno. Un dolore dietro l’altro. Svegliai Franco.
            “Sto male, è ora di andare.”
            Ci vestimmo in fretta. Franco prese la valigia, ormai pronta da qualche settimana, e andò a prendere mia madre. Fece in un attimo, mentre io mi torcevo dal dolore, sempre più incalzante, sul divano. L’utero si contraeva. Sentivo che voleva liberarsi in fretta. Era il mio secondo figlio e sapevo che avrei avuto un travaglio meno lungo e doloroso che per Aurora. Franco rientrò in casa con mamma, che lasciammo in casa a vegliare sulla piccola.
            “In bocca al lupo, cara, andrà tutto bene, vedrai. Ormai sei una supermamma.”
            “Crepi, mamma, grazie. Ci vediamo domattina. Appena possibile, in orario di visite, mando Franco a prendere te ed Aurora. Ciao.”           
            Arrivammo in ospedale. Ero pronta. Mi sistemarono velocemente e mi portarono direttamente in sala parto.
            “E uno, e due, e tre, alla prossima!”
            Alla seconda spinta venne alla luce il mio Giulio. Fece appena un piccolo nghè. Era piccolo, nero, bagnato, sporco. Tenero tenero. Ero stanca e felice. Avevo coronato tutti i miei sogni di ragazza. Una bella casetta a due piani con un po' di giardino, un marito tranquillo, due figli, una femminuccia e un maschietto, un lavoro.
Pensieri, ricordi, sensazioni mi attraversavano la mente. Mentre lavavano e preparavano Giulio, il dottore sistemò me con due punti di sutura sull'episiotomia. Mi riportarono in camera. Ero stanca morta e chiesi di poter dormire un po’.
Il riposo non durò a lungo e fu solo un leggero dormiveglia. Nella stanza in penombra non ero sola.
Voci, figure, campanelli, sogni, immagini. Alle dodici circa, aprirono le porte del reparto e iniziò la processione delle visite. Mamma con Aurora, Franco con mia suocera, mio fratello, mia sorella, Carla, Anna Rita, ...
Avevo tanta fame, ma non volevo dar fastidio. Avrei aspettato il rancio dell'ospedale e avrei mangiato quello. Sicuramente, pensavo, mi toccherà una dispersione di pastina in brodo della più tipica, ospedaliera e scotta, e una fetta di carne arrosto con insalata. Evviva!
Un bel caffè, ecco cosa volevo davvero. Un caffè bollente per tirarmi su. L’avrei chiesto a Franco se non fosse scivolato via dalla stanza, alla prima occasione, prima degli altri, col pretesto di riaccompagnare la madre a casa. Ma sì, in fondo sapevo che più che il mio compagno era come un altro figlio, il più grande, il più bisognoso di cure, il più insofferente. Lui, il lavoro, il bar e il calcetto. E, naturalmente, la mamma. Il suo mondo era circoscritto in questi angusti confini. Tutto sommato l'avevo sempre saputo. Come sapevo che c'era di peggio nel panorama maschile, dunque dovevo accontentarmi.
Quando tutti furono andati via, la nurse mi portò Giulio, con la sua bella tutina nuova, avvolto in un soffice telo, le manine scure, raggrinzite, chiuse a pugno. Lo presi in braccio e fu subito amore a prima vista e lacrime di commozione. Tirai fuori un seno e glielo offrii e lui, piccino piccino, non tardò a capire. L'odore, forse, lo inebriò prima di ogni cosa, occhi socchiusi, boccuccia secca, trovò il capezzolo e si attaccò, succhiando d’istinto. I nostri ormoni facevano il loro lavoro. L'ossitocina mi stava facendo sciogliere in un rivolo di latte, di rilassatezza, di amore che, nato in quel momento, sarebbe solo cresciuto e non avrebbe visto mai più fine.


CAPITOLO II

Aurora prendeva Giulio per mano  e tentava di portarlo fuori in giardino. Voleva giocare col suo fratellino, ma lui scappava via; non ne voleva sapere. Lei, sempre ciarliera e allegra, faceva l'ultimo anno di asilo. A settembre anche Giulio avrebbe cominciato con la scuola dell'infanzia. Io mi barcamenavo tra loro due, la casa e il lavoro part-time.
Un giorno come tanti, mentre stiravo e li seguivo con lo sguardo, accadde qualcosa di nuovo.
Aurora stava giocando con la sua cucina, con pentoline, piattini, coperchi. Giulio prendeva, ad una ad una, le cose della sorella e le allineava con precisione l'una dietro l'altra, sul bordo del camino spento. Auri  riprendeva le sue pentoline e le risistemava sulla piccola cucina. Giulio, da capo, gliele sottraeva e le riallineava. Cominciarono a litigare. Lui le strappò di mano tutti i piattini, li lanciò a terra, li calpestò, la graffiò in viso e scappò via. Si rifugiò in un angolo della stanza, dietro le tende, accovacciato a terra. Spensi il ferro da stiro e andai da loro. Presi la piccola e la consolai, tenendola tra le braccia.
“E’ cattivo, mamma, Giulio è cattivo”, piagnucolò Aurora.
Lo cercai, alle spalle del divano. Lo trovai  nascosto dietro la tenda, in quello che sarebbe divenuto il suo angolo preferito. Lo sgridai, tentai di sculacciarlo, ma mi fermai presto. Era assente, non un'emozione sul viso bellissimo e scuro, incorniciato da riccioli neri. Aveva uno sguardo vacuo, perso nel vuoto, uno sguardo che cercai invano.
“Che succede?”, mi chiesi.

CAPITOLO III

Gli episodi di assenza di Giulio, le sue improvvise fughe a nascondersi, le liti con Aurora che voleva solo giocare e interagire con il  fratellino, si ripeterono sempre più spesso, durante tutta la primavera. Andammo dal nostro pediatra e poi a Roma, al Bambino Gesù; facemmo esami e visite. Ma io conoscevo già la risposta. L'intuito, il sesto senso di una mamma funziona ancora più di una T.A.C. o di qualsiasi altro esame.
Giulio era autistico. Iniziai a provare una pena infinita. La mia vita e la sua erano segnate per sempre. Giulio aveva cominciato a camminare e a parlare più o meno regolarmente, intorno ad un anno di età. Ora, invece, parlava sempre meno, a volte, era come impietrito. Indicava le cose che voleva, che non poteva raggiungere da solo. Io ero sconvolta, a momenti affranta, a tratti piena di un’ottusa speranza. Cominciai a non dormire bene la notte. Mi alzavo e andavo a vigilare sul suo sonno, mi accertavo che respirasse bene, pensavo, rimuginavo sul perché una cosa del genere fosse capitata proprio a noi. Mi chiedevo cosa avremmo fatto più in là, come si sarebbe evoluta la malattia. Sì, la malattia. Dovevo fare i conti con la realtà, chiamare le cose con nome e cognome. Presi un periodo di aspettativa al lavoro per dedicarmi solo a Giulio e per capire cosa era l'autismo, cosa potevo fare per aiutarlo, perché almeno non  progredisse, non peggiorasse.
Franco, forse, era anche più colpito di me, ma capii subito che, in quella battaglia che la vita aveva ammesso sul nostro cammino, non saremmo stati insieme. Reagì come rifiutando la realtà. Continuò la sua vita di sempre. Al mattino, praticamente,  fuggiva via,  accompagnava Aurora a scuola e andava al lavoro; un paio di pomeriggi alla settimana faceva il rientro in ufficio. In effetti, stava fuori casa sempre di più, sempre più spesso. Faceva gli straordinari o prendeva un po' di lavoretti extra e restava in ufficio, “per arrotondare”, mi diceva.
Il sabato mattina, in genere, ci dedicavamo insieme alla spesa, alle commissioni della settimana, ma un paio di volte Giulio creò tanti di quei problemi al centro commerciale, che perdemmo anche questa abitudine. Franco si imbarazzava per queste scenate in pubblico. Nel pomeriggio di ogni sabato se ne andava a fare la sua immancabile partita di calcetto, qualsiasi cosa fosse accaduto. Io mi sentivo sola. Ero sola.
Mia madre mi aiutava come poteva, soprattutto con Aurora, che aveva capito ormai di avere un fratellino speciale. Non volevo che ne soffrisse troppo, che si sentisse penalizzata, ma  bisognava fare i conti con la realtà e lei li aveva già fatti, in maniera più semplice ed immediata di noi adulti.
I nostri sogni si erano infranti sulla roccia di quella malattia subdola, che non aveva cure, che non aveva regole, né soluzioni.
Aurora presto si rassegnò e cominciò ad assecondare gli strani tempi di Giulio. A volte potevano stare insieme, a volte no. Naturalmente lei non poteva ricevere troppo spesso le amichette a casa perché il fratello si innervosiva dinanzi a qualsiasi novità;  aveva bisogno di tutto il suo tempo, di tutti i suoi spazi. Vuoti.
Alcune giornate trascorrevano più tranquille. Si metteva al suo posto, vicino al camino spento e allineava le  cose, si incantava davanti alla tv o disegnava. Parlottava da solo, canticchiava. Altre volte era nervoso, violento, si sbatteva a terra, non voleva mangiare, non voleva farsi lavare o vestire.
Io andavo avanti alla giornata.

... segue

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