CAPITOLO VII
Il tempo trascorreva veloce; a me
pesava come se fosse doppio. Annegavo nella quotidianità, mille cose da fare,
ma se mi fermavo a pensare mi prendeva il panico. Mi chiedevo come sarebbero
stati gli anni futuri, come sarei invecchiata, cosa avrebbe potuto fare Giulio
da grande o, un giorno lontano, senza di me. Alla fine delle scuole medie, gli
avrei fatto frequentare una scuola professionale, per imparare un mestiere, per
addestrare la sua manualità, portata per il disegno, i grafismi. Avremmo dovuto
trovare qualcosa che sfruttasse il suo schematismo mentale.
“Magazziniere in una farmacia o addetto di una cartolibreria? Boh, vedremo”,
mi dicevo.
Intanto cercavo di sfruttare tutti possibili permessi per motivi di
famiglia, i benefici della legge 104, la malattia e via discorrendo. Ero
entrata in un gruppo, a Roma, “Mio figlio, l’autismo ed io", una
onlus che organizzava incontri, corsi,
convegni, banca delle ore. Ci si riuniva in un cinema dismesso ogni primo
giovedì del mese, per chiacchierare e confrontarsi. A volte gli incontri erano
solo per i genitori; talvolta, invece, aperti anche ai ragazzi. Spesso
ospitavamo medici ed educatori esperti. Un giorno riuscii, non so come, a
trascinarci anche Franco, ma una volta sola. Non volle venire mai più.
Incontrare altri genitori come noi, parlare dell'argomento significava
oggettivare, rendere ancora più reale un fatto dal quale cercava di fuggire. In
questi incontri conobbi, Mario e Luisa, due simpatici ragazzi marchigiani. Loro
avevano due figli maschi gemelli, più piccoli di Giulio, entrambi autistici. Si
facevano forza a vicenda, andando avanti su quella strada in salita che la vita
aveva riservato loro. Io facevo
sempre ricerche, mi documentavo,
studiavo, speravo in qualche scoperta scientifica, in un vaccino, in una
medicina nuova, ma nulla. Nulla di nuovo.
CAPITOLO VIII
A giugno, finalmente, Giulio terminò le elementari. Trascorremmo un breve
periodo di vacanza in campagna., facendo sempre lunghe passeggiate. Lui era un
vero camminatore, un passo dietro l'altro, veloce, costante, monotono. Non
voleva fermarsi mai, non sarebbe mai rientrato a casa. Amava l’aria aperta e
amava muoversi. Io non mi sentivo di lasciarlo solo e quindi ero costretta a
seguirlo o, perlomeno, a tenerlo d’occhio. Talvolta era divertente, talvolta mi
stancavo o avrei voluto fare altro.
A settembre, iniziò a frequentare la scuola media. Fu piuttosto nervoso durante
le prime settimane. Aveva cambiato istituto, classe, compagni, insegnanti e per
lui era più complicato che per gli altri adeguarsi. Si chiudeva in se stesso,
non parlava e, se costretto a fare qualcosa, si ribellava, anche con violenza. Cresceva a vista d'occhio, era
molto più alto dei suoi compagni di scuola, anche perché aveva ripetuto un paio
d'anni, tra asilo ed elementari. Aveva sempre un appetito famelico, spesso era
smanioso, inquieto. Modificò la sua voce, cambiò odore, cominciarono a spuntargli i primi peli e un abbozzo di morbida barba, oltre a tanti
brufoletti in viso. Sempre più spesso
voleva uscire a fare la sua passeggiata in punta di piedi. Certo, mi tenevo in
forma, ma a volte era sfiancante stargli dietro. Camminava, camminava, camminava.
Da quando era cresciuto, lo lasciavo fare un po' da solo. Andavamo al parco,
vicino casa; io sedevo leggere un giornale o a chiacchierare con qualcuno e lui
aveva il permesso di muoversi da solo, un po' più liberamente, senza uscire però mai
dalla mia vista. Era un tenero pasticcione, un timido. Aveva un rapporto un po'
conflittuale con cani, coi quali si imbatteva ai giardinetti. Se abbaiavano, si
irrigidiva, si bloccava. A volte li ignorava, a volte restava a fissarli. Non
riuscivo a capire cosa rappresentassero per lui, se lo incuriosissero o
spaventassero. Certo, non lo lasciavano indifferente, come accadeva per molte
altre cose.
Avrebbe sempre voluto dormire con me, ma oramai era grandicello e cercavo
di evitarlo. Stava crescendo in fretta, almeno nel corpo.
“Povero Giulio, come avremmo fatto quando fosse diventato un uomo?”, mi
chiedevo. Tutto era più complicato con un figlio così. La scuola,
l'apprendimento, il futuro, il lavoro, le relazioni sociali, affettive e,
forse, un giorno anche le sue esigenze fisiche ed emotive. Avrei dovuto
parlarne la prossima volta in associazione, prima che la questione divenisse più urgente. Giulio era legatissimo solo a me;
nei confronti degli altri era distante, non riusciva ad avere relazioni forti,
amichevoli, intime, a scuola, con i compagni, con gli insegnanti. Tollerava le
altre figure familiari, accettava le tenere carezze di mia madre, gli sguardi
affettuosi e avvolgenti di Aurora. Era freddo col padre. Forse perché percepiva
in lui un atteggiamento di non totale
accettazione.
Ma io ormai avevo smesso di fargliene una colpa. Da più di dieci anni
convivevo con questo fardello gravoso. In passato, mi aveva fatto tanta rabbia.
Avevo disprezzato Franco e sua madre, per il loro egoismo, i loro limiti, la
loro vergogna, l'incapacità di accettare, di capire la realtà e interagire. Ora
li avevo assolti. Per me stessa più che per loro. Avevo bisogno di conservare
le mie energie, di non andare alla deriva, di provare sensazioni e sentimenti
positivi. Quelli negativi erano inutili e facevano star male soprattutto me.
Dunque via. Una specie di intelligenza emotiva, istintuale e spontanea si era
fatta spazio dentro di me col passare del tempo. Tutto era già troppo
complicato per avere pensieri pesanti e risentimenti.
Aurora, intanto, aveva terminato il liceo e si era iscritta
all'università. In quell'occasione, ero riuscita come non mai ad esserle
vicina. Le avevo parlato molto durante
tutta l'estate.
“Auri, guarda solo dentro di te. Non lasciarti influenzare da nulla. Non
pensare a me e a Giulio, non pensare alle aspettative di papà o al denaro che
ci potrà costare l'università. Scegli la facoltà e la sede che vuoi. Sentiti
libera, è la tua vita”, le ripetevo spesso.
Lei riuscì a fare una scelta autentica. Abbandonò pian piano tutte le
false idee, l'intenzione di restarmi vicina, di sacrificarsi, di fare qualcosa
per conoscere meglio l'autismo, per aiutare Giulio. Si iscrisse a Scienze delle
Comunicazioni, perché voleva fare la giornalista. L'aveva desiderato da sempre.
Quand'era piccola restava affascinata dalla Gruber, che si stagliava dal piccolo schermo con la sua figura piccola
e forte, di tre quarti, leggendo le notizie belle e brutte al TG. Aurora si
appassionò subito alle lezioni, allo
studio, alle esercitazioni.
Stava arrivando l'inverno ed io volevo accoglierlo non al solito modo,
come un rimpianto, un abbandono al sole e al caldo dell'estate, ma come
l’ingresso in un rifugio più intimo, in un'altra dimensione. Avrei cercato di
godere di più la casa, il tepore del nostro camino, il sapore delle castagne
arrosto, la tv accesa e Giulio ed io distesi sul divano, con un plaid addosso.
“Cucciolo mio, cos’hai? Vieni qua, vieni dalla tua mamma”.
Giulio si faceva abbracciare, si
strofinava contro di me, come aveva sempre fatto. Anche se ora c'era questa
nuova cosa in lui, un’imbarazzante novità. Si svegliava preda dei suoi impulsi
e non sapeva cosa fare. Era tanto nervoso a volte. Dovevo assolutamente aiutarlo,
aiutarlo a gestire la sua sessualità, a capire che poteva e doveva vivere le
nuove sensazioni, senza domande, senza vergogna, senza frustrazioni. Capivo
quanto per lui fosse difficile poter avvicinare una compagna di scuola, una
prof, una persona al parco. Come avrebbe fatto a vincere la sua ritrosia, la
paura, l'impossibilità di avere rapporti normali, affettuosi, intimi con gli
altri? Lui non permetteva a nessuno di toccarlo, di fargli una carezza o di
dargli una pacca sulla spalla, a nessuno consentiva di toccargli la testa, di
mettere le dita tra i suoi riccioli morbidi e neri. Solo a me. Non volevo che
Giulio soffrisse, che provasse imbarazzo e non volevo che potesse suscitare
l'ilarità ottusa di qualcuno di fronte ad una compulsione improvvisa, in
pubblico.
CAPITOLO IX
“Ciao Margherita, a lunedì”, feci dopo aver timbrato il cartellino,
uscendo dall'ufficio.
“Ciao Francesca, stammi bene!”, mi rispose lei, in tono gioviale come
sempre.
Andai al parcheggio, presi l’auto e mi rassegnai a impiegare il doppio
del tempo necessario per rientrare, per via del traffico e della pioggia
battente. Arrivata a casa, mi annunciai con una scampanellata, mentre cercavo
le chiavi in borsa per entrare. Auri mi precedette, aprendomi la porta.
“Ciao mamma, tutto ok?”, mi chiese premurosa.
“Sì, cara e tu? Hai studiato tutto il giorno?”.
“Sì, giovedì abbiamo un'esercitazione e non voglio sbagliarla. Voglio
essere abbastanza preparata.”
“Bene, ma cerca anche di distrarti un po' nel weekend, esci. Marco possa
prenderti stasera?”
“No, mamma, stasera no. Voglio andare a letto presto. Domani pomeriggio
andremo al cinema e poi a mangiare una pizza.”
“Giulio che fa, è tranquillo?”,
chiesi.
“Sì, abbastanza. È tornato da scuola, gli ho preparato la merenda e ho
cercato di distrarlo un po' con le costruzioni, ma non ne ha voluto sapere. E’
di là, impalato davanti alla tv”.
“Ok, vado a salutarlo...”.
Giulio frequentava ormai la terza media ed aveva l'orario prolungato.
Avevo fatto in modo che si abituasse ad andare e a tornare da scuola col
pulmino. C'era una graziosa assistente sullo scuolabus, Rossella, che lo
prendeva in consegna al mattino e lo riaccompagnava il pomeriggio. Lui per
fortuna l’aveva accettata, pur restando come al solito indifferente, ma tollerante. Sull'autobus gli conservavano
sempre lo stesso posto a sedere e lui se ne restava tranquillo così, in genere.
“Buonasera, tesoro mio. Come va? Cosa guardi? “
“Mamma, …”.
Giulio mi guardò per un attimo, poi tornò al suo telefilm. Che pena. Ogni
volta che incontravo il suo sguardo non potevo non pensare a quello che Giulio
era e al figlio che avrebbe invece potuto essere e che non avrei mai avuto.
“Hai fame?”, chiesi. “Preparo la cena, così quando rientra papà sarà tutto pronto. Che
c’è?”.
Quasi sempre le mie domande restavano senza risposta. Me ne andai in
cucina per mettere insieme qualcosa da mangiare. Poco dopo Franco telefonò per
dire che sarebbe rientrato tardi. Andava a cena con due colleghi, dopo le
solite ore di straordinario. Cominciavo a pensare che avesse una relazione, ma
stranamente la cosa mi lasciava indifferente. Avevo altro cui pensare. Vivere
un’esistenza passabile, decente, nonostante tutto, nonostante Giulio, la
solitudine, l'indifferenza di Franco, la stanchezza, la pioggia e l'inverno
alle porte. Ma sì, dovevo pur andare avanti. Un pensiero strano, inatteso mi
attraversò la mente. Le cose forse potevano cambiare. Non era detto che tutto
fosse compiuto, che la mia vita finisse lì, nelle quattro mura del mio dolore,
della malattia e della fatica. Avrei
aiutato il mio ragazzone a crescere, per quanto possibile, gli avrei fatto
imparare un mestiere in cui potesse utilizzare le sue manie, l'avrei aiutato a
gestire i suoi impulsi sessuali, ormai sempre più forti, sempre più frequenti.
Pensavo che avrebbero potuto, se indirizzati, se canalizzati nel giusto modo,
aiutarlo ad aprirsi, ad avere rapporti con altre persone oltre che con me.